La potenza militare dell'America è ormai solo un ricordo: arsenali vuoti, cantieri navali ridotti, carenza di munizioni, personale non idoneo e impianti produttivi obsoleti rendono impossibile sostenere un conflitto ad alta intensità, soprattutto contro un rivale come la Cina. Eldridge Colby, capo stratega nominato da Trump, riassume la situazione in modo netto: «se qualcuno chiama il bluff, è la catastrofe».
La scena iconica di Apocalypse Now, in cui gli elicotteri americani attaccano al suono della “Cavalcata delle Valchirie” di Wagner, resta impressa nell’immaginario collettivo come simbolo della strapotenza militare americana. Ma quell’immagine, oggi, appare anacronistica: una forza devastante che, tuttavia, non bastò a vincere la guerra in Vietnam. E proprio quell’immagine sonora e visiva sembra richiamare i dilemmi del presente.
Oggi come allora, gli Stati Uniti si confrontano con una realtà geopolitica in rapida trasformazione, in cui il potere militare non è più una garanzia di vittoria. Washington dialoga con Mosca, cerca un compromesso in Ucraina, e perfino con la Cina teorizza la coesistenza. Perché? Perché, semplicemente, non può permettersi una guerra.
L’industria militare statunitense versa in condizioni critiche. Gli arsenali sono deboli, la capacità produttiva è insufficiente, mancano gli operai e le risorse umane per sostenere un conflitto ad alta intensità. La priorità dell’amministrazione Trump, quindi, non è affermare la propria superiorità militare, ma guadagnare tempo. Tempo per riorganizzare la macchina bellica, rimettere in moto un’industria lasciata a se stessa per decenni e prepararsi ai conflitti del futuro.
Nei primi mesi del suo secondo mandato, Trump ha ordinato operazioni militari in Somalia, Iraq e Yemen. Ma queste azioni restano limitate. Il vero problema è che gli Stati Uniti non sono pronti a sostenere una guerra prolungata e simmetrica contro una potenza come la Cina. Il vantaggio strategico si è assottigliato e le probabilità di uscire vincitori da un conflitto diretto con Pechino sono giudicate troppo basse da molti analisti. Studi accreditati stimano che nei primi giorni di una guerra contro la Cina potrebbero morire tra i 25 e i 30 mila soldati americani: un tasso di perdite peggiore di quello della Seconda guerra mondiale.
Sembra incredibile, considerando che il Pentagono spende tre volte più della Cina in difesa. Ma la realtà è più complessa. La macchina bellica americana si è logorata. Non ci sono abbastanza munizioni, impianti produttivi, cantieri navali, o operai specializzati. L’unico impianto per proiettili da 155 mm è fatiscente e si trova in Iowa. L’unico impianto per la polvere da sparo militare in Louisiana è esploso. Non esistono più cantieri navali civili da riconvertire. Se si rompe un sottomarino, ci vogliono più di mille giorni per ripararlo.
Il controllo cinese sulle materie prime è un ulteriore problema: Pechino fornisce il 75% delle terre rare necessarie per la produzione di armi sofisticate. E manca anche la forza lavoro. Solo il 12% dei giovani americani tra i 17 e i 24 anni è considerato idoneo all’arruolamento. Gli altri sono esclusi per motivi sanitari, psicologici, o legati all’abuso di sostanze. Le forze armate non raggiungono da anni gli obiettivi minimi di reclutamento.
E anche la volontà politica e sociale di finanziare il riarmo si è indebolita. Le sconfitte in Iraq e Afghanistan hanno lasciato il segno: oggi l’opinione pubblica americana è restia ad accettare sacrifici fiscali per nuovi conflitti. Da anni, il Pentagono dichiara di non essere più in grado di combattere due guerre contemporaneamente. Ma il timore è che, impegnandosi su un fronte, un altro nemico possa approfittarne per colpire altrove. Cina, Russia, Iran, Corea del Nord: il fronte avversario non è mai stato così coordinato.
A sintetizzare tutto questo è stato Elbridge Colby, scelto da Trump come Sottosegretario alla Difesa e capo stratega del Pentagono. Nell’audizione al Senato per la conferma della nomina, Colby ha dichiarato: «Il divario tra le nostre aspirazioni e quello che possiamo fare in realtà è così ampio che se qualcuno chiama il bluff è la catastrofe». La conclusione, per l’amministrazione Trump, è chiara: evitare a ogni costo di finire in guerra.
Tutto questo spiega le scelte strategiche dell’attuale Presidenza. L’idea di non sprecare risorse scarse in Ucraina. I dubbi sull’impegno per Taiwan. L’interesse a incorporare le risorse della Groenlandia, del Canada e dell’Ucraina. Il ritorno alla distensione in stile anni ’70. Il tentativo di non rompere del tutto l’asse Mosca-Pechino. L’accettazione di un mondo multipolare. Se gli Stati Uniti non possono più dominare il pianeta da un solo centro di potere, allora devono riorganizzarsi, attendere, prepararsi.
La domanda finale è ineludibile: il caos globale darà davvero all’America il tempo di cui ha bisogno per ricostruire la propria potenza militare? O sarà travolta da un sistema internazionale che non aspetta nessuno?
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