Enrico Mentana ogni tanto ne dice una giusta

Primo punto: se Matteo Renzi fosse stato il candidato premier del centro-sinistra alle elezioni del febbraio scorso, oggi lui sarebbe a Palazzo Chigi e Silvio Berlusconi all’opposizione. Anzi, probabilmente il Cavaliere non si sarebbe neppure presentato come candidato premier. Secondo punto: se si votasse tra un anno non è affatto sicuro che Renzi vincerebbe, perché in politica non si danno mai due volte le stesse condizioni. Ma non c’è dubbio che sarebbe il candidato del suo schieramento capace di raccogliere più voti. E la domanda allora è ovvia: perché il Pd e il centro-sinistra sembrano aver paura di usare quella che, ad ogni evidenza, è la loro unica vera briscola?
La risposta è la stessa che serve a spiegare la sconfitta di Renzi alle primarie contro Bersani: mors tua vita mea.

Infatti otto mesi fa le primarie rappresentarono una sorta di “uno contro tutti”: da un lato il sindaco di Firenze, spalleggiato da pochi outsider; dall’altro tutto il Pd e, al ballottaggio, tutta Sel. Perché un successo di Renzi avrebbe instaurato un rapporto diretto con l’elettorato, e soprattutto con quella parte di esso che, lontano dai partiti della sinistra, era andata a votare per l’uomo nuovo, identificandolo come la figura adatta per far voltare pagina al paese, superando il ventennio della contrapposizione Berlusconi-AntiBerlusconi. Il Pd soprattutto avrebbe perduto così il suo ruolo centrale nello schieramento, e i suoi dirigenti la presa sulle scelte. Per molti di loro sarebbe stato a rischio anche il ruolo personale, per ragioni anagrafiche o di linea politica. Il loro garante era Bersani.

Si sa come è andata: ironia della sorte, quel gruppo dirigente che aveva preferito certezze per sé stesso piuttosto che rischi con Renzi è andato a schiantarsi prima nel voto senza vittoria, poi nel fallimento della corsa alle presidenze delle camere (già promesse a Franceschini e Finocchiaro), quindi nel naufragio del tentativo di governo Bersani e infine nella Waterloo del Quirinale, col sacrificio di Marini e Prodi. Lo stesso dato positivo di aver comunque goduto del premio di maggioranza alla Camera si è rivelato un boomerang, con un nugolo di giovani deputati in balia delle correnti vecchie e nuove, in fibrillazione di fronte alla necessità di governare coi “nemici” del Pdl, e ora ancor di più in vista del congresso del partito, dove li condurrà il traghettatore Epifani.

Uno pensa: la lezione è stata così chiara che stavolta ci penseranno due volte prima di chiudere la porta in faccia a Renzi. Errore. Per lo stesso istinto di sopravvivenza sono in molti a non volergli assolutamente dare le chiavi del partito: “Quello si prende il Pd, ne fa un suo comitato elettorale, quando è pronto fa cadere il governo, si presenta alle elezioni e ci mette tutti ai margini”. Discorso miope? Non del tutto, perché il governo da far cadere per arrivare presto alle elezioni è guidato da un altro uomo forte del partito, che è stato leale numero due di Bersani, ma può dire di non esser mai stato comunista e di poter esser spendibile – visto che per sorte è già a Palazzo Chigi – anche per il futuro. Già, il problema di Renzi si chiama Enrico Letta. E certo tanti nel Pd lo preferirebbero a lui.

Questo spiega la frenesia del sindaco di Firenze: sa che quando gli dicono “non puoi pretendere tutto, Pd e premiership” molti pensano di non dargli né l’uno né l’altra. D’altronde non può pretendere di diventare segretario per essere automaticamente candidato a premier: quella regola fu modificata proprio per far correre lui. E ha un senso anche la tesi di D’Alema: non s’è mai visto che si facciano le primarie per candidato premier senza che ci siano le elezioni in vista. Sta sempre all’attacco Renzi, perché la sua guerra di movimento glie lo impone. E’ una figura che ha bisogno di luce, per illuminare il consenso. Ma così ogni giorno si fa un nemico in più. Con gran gioia di Berlusconi, destinato a finire in archivio quando Renzi vincerà, e quindi per ora ben saldo al centro del quadrato…