Il comizio di Donald Trump al Madison Square Garden di New York domenica scorsa, a una settimana dalle elezioni, è stato un’imbarazzante allegoria misogina di stereotipi razzisti e sessisti. Sul palco, ha riversato la sua rabbia contro il sistema politico e legale, mostrando apertamente la retorica violenta che risuona nelle convinzioni di un MAGAverse sempre più radicalizzato.
La serata è iniziata con un comico, Tony Hinchcliffe, che non si è risparmiato con le battute razziste: ha liquidato Porto Rico come un’“isola galleggiante di spazzatura”, deriso gli ispanici per la presunta mancanza di controllo delle nascite, ha usato una serie di cliché offensivi sugli ebrei e i palestinesi, e si è rivolto a un uomo di colore del pubblico con un chiaro riferimento al taglio dell’anguria per Halloween. Alla campagna Harris non è sembrato vero.
Poi un altro oratore ha aizzato violentemente la folla che alle elezioni “dobbiamo massacrare questa gente“, ha continuato facendo paragoni ingiuriosi contro la vicepresidente Kamala Harris definendo i suoi collaboratori “magnaccia che distruggeranno il paese” – quindi la candidata democratica sarebbe una prostituta? -, mentre un terzo l’ha etichettata come “l’Anticristo”. A rincarare la dose ci ha pensato Tucker Carlson, ex conduttore di Fox News, che ha scherzato sull’etnia della Harris – figlia di madre indiana e padre giamaicano – definendola ironicamente “il primo ex procuratore californiano samoano-malese con basso quoziente intellettivo a correre per la presidenza.”
Che il carnevale abbia inizio!
Quando Trump è finalmente salito sul palco, quello che doveva essere l’evento culminante della sua campagna si è trasformato in una sorta di “carnevale” di recriminazioni, tutto condito dai soliti commenti sessisti e razzisti, oppure, come nel caso dell’anchor-man della CNN Anderson Cooper, declinandone il nome al femminile. La lista di ospiti comprendeva personaggi di primo piano del mondo repubblicano, compreso il candidato vicepresidente JD Vance e tutta la famiglia Trump al completo. La serata ha assunto toni ancora più estremi rispetto alla Convention repubblicana di luglio.
Nel corso del discorso, Trump ha continuato a ripetere il concetto del “nemico interno,” un’espressione che negli ultimi giorni ha iniziato a usare sempre più spesso. Questo, insieme alle sue promesse di vendetta in caso di vittoria, ha portato i democratici a lanciare allarmi su una svolta autoritaria, specialmente dopo le parole di John F. Kelly, ex capo dello staff di Trump, che ha definito l’ex presidente una minaccia concreta, tendenzialmente un “fascista”.
La retorica violenta di Trump
Trump, tuttavia, non sembra preoccupato dalle critiche. Anzi, nel comizio ha addirittura scherzato sul concetto di nemico interno con fare beffardo. Ha promesso, senza mezzi termini, di perseguire tutti coloro che considera responsabili di aver “imbrogliato” nelle passate elezioni e ha dichiarato l’intenzione di licenziare il procuratore speciale Jack Smith, che ha presentato le accuse federali contro di lui, arrivando perfino a ipotizzare di espellerlo dagli Stati Uniti.
Nella retorica di Trump, la data della sua elezione è stata definita come un “giorno di liberazione” dagli immigrati, un riferimento che ha immediatamente acceso il dibattito e provocato reazioni – specialmente tra i repubblicani della Florida e di Porto Rico – che hanno criticato i commenti razzisti espressi sul palco, specialmente quelli del comico riguardo l’isola.
Trump non ha mai subìto concrete conseguenze politiche per le sue uscite razziste: anche quest’anno ha attaccato città come New York, Detroit e Milwaukee perché popolate da molti afroamericani. E i suoi alleati non sono da meno.
78 minuti di fiele
Il comizio è stata una lunga maratona di retorica antidemocratica, dove Trump è salito sul palco con due ore di ritardo e ha parlato più per autoindulgenza che per vera strategia politica. Si è goduto il palco del Madison Square Garden, “l’arena più famosa del mondo”, e ha rispolverato la battuta che diceva in The Apprentice: “Kamala, sei licenziata!”. 78 minuti di fiele.
La serata ha messo in mostra la gamma di toni che definiscono il movimento MAGA, con personaggi del calibro di Hulk Hogan – che ha messo in scena il solito teatrino della maglietta strappata – e Elon Musk. Il miliardario è apparso in video con le immagini del lancio di un razzo di SpaceX alle sue spalle sostenendo le agevolazioni fiscali di Trump. Di Elon Musk, che ha investito 118 milioni di dollari nel suo PAC pro-Trump, il New York Times ne fa un quadro sconfortante.
Stephen Miller, uno dei più stretti consiglieri di Trump e promotore delle sue politiche anti-immigrazione, urlava con toni nazionalisti: “solo Trump dirà che l’America è per gli americani e solo per gli americani.” “L’America è per gli americani” era lo slogan del Ku Klux Klan.
I sostenitori di Trump si sono goduti il momento, riempiendo di cappellini Make America Great Again l’arena simbolo di New York, città democratica per eccellenza in uno stato democratico, prendendo gusto nel riempire le strade cittadine. Anche le promesse di deportazioni di massa e attacchi agli immigrati senza documenti hanno trovato sostegno: a nessuno importava che Trump fosse a pochi chilometri dal luogo dove, a inizio anno, è stato condannato per 34 reati.
La Grande Sostituzione
La cosa più incredibile è che sembra che una parte sempre più ampia della base repubblicana accolga proprio questo tipo di dicotomia. Oggi quasi la metà dei repubblicani sostiene una versione della “Grande Sostituzione” – la teoria secondo cui i migranti starebbero “diluendo” la popolazione nativa americana – e il partito l’ha ormai fatta propria come messaggio principale. Non solo, ma un recente sondaggio rivela che una parte dei sostenitori di Trump crede che i migranti haitiani stiano rubando e addirittura mangiando animali domestici. La percezione tra i repubblicani che la diversità etnica e razziale rappresenti una minaccia è salita dal 21% nel 2019 al 55% attuale.
Con questo clima, quello che probabilmente viene contestato a Hinchcliffe non è altro che l’essere stato fin troppo esplicito su certi temi, persino contro un gruppo che comunque ha un peso politico utile per Trump.
Benvenuti nel mondo MAGA
L’evento di domenica a New York è stato una cornucopia di crudezza, punteggiata da quel tipo di linguaggio che una volta sarebbe stato impensabile per un raduno tenuto per promuovere la candidatura di un aspirante presidente degli Stati Uniti: la parola “fuck” risuonava ovunque, il dito medio era l’unico usato, e l’allusione esplicita al sesso orale con la vicepresidente Kamala Harris è stata la più applaudita.
Trump ha sfondato più di un limite negli anni, ma in questa campagna le imprecazioni sono aumentate ulteriormente: tra le molte linee che Trump ha cancellato nel suo periodo politico c’è il confine invisibile tra correttezza e volgarità. Trump è sempre stato più incline di tutti i suoi predecessori alla Casa Bianca a usare pubblicamente quelle che una volta venivano chiamate parolacce. In questo 2024, però, i suoi discorsi sono diventati sempre più volgari e crudi.
Quell’autocontrollo minimo che ogni tanto Trump mostra in pubblico sembra essersi dissolto completamente. In una analisi recente dei suoi discorsi, è emerso che ora usa il 69% in più di espressioni volgari rispetto alla sua prima candidatura nel 2016. A volte ammette pure di sapere che non dovrebbe, ma aggiunge subito che non può farne a meno. Secondo una stima, ha usato almeno 140 volte parole “non presidenziali” compresi termini più leggeri come “dannazione” e “inferno,” per un totale di oltre 1.700 solo nel 2024.
Piace alla gente
Alla folla, in realtà, piace: al MSG, le migliaia di sostenitori hanno applaudito e riso dei vari “fuck” e “suck” e delle altre colorite espressioni di Trump e degli oratori prima di lui. Per loro, il candidato repubblicano è un vero uomo, uno che parla senza freni inibitori, che usa il linguaggio volgare come segno di autenticità. È uno così che vogliono alla Casa Bianca.
In totale, analizzando gli interventi dei 17 oratori presenti, sono stati contati almeno 83 epiteti di varia natura. Tra i più prolifici c’era Sid Rosenberg, conduttore radiofonico conservatore, che ha definito Hillary Clinton “una malata figlia di puttana” e l’intero partito democratico “un branco di degenerati, di feccia, di odiatori di ebrei”. Un sostenitore di Trump ha lanciato il suo apparato riproduttivo e ha mostrato il dito medio ai democratici chiamando Trump “the greatest fucking president in the world”.
Tony Hinchcliffe, il comico che ha aperto la kermesse, è stato l’unico di cui la campagna di Trump ha preso le distanze: la preoccupazione di perdere parte dei voti di 5,7 milioni di portoricani residenti negli Stati Uniti (un milione negli swing states), e quindi elettori, ha messo sul chi vive l’abituale tattica di Trump di non scusarsi mai, nemmeno di fronte all’evidenza. Però che sfigato questo Hinchcliffe… Ops, ho detto una parolaccia!
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