Il Jobs Act di Matteo Renzi è in bozza e sta già girando tra i parlamentari e i circoli del Partito Democratico sul territorio nazionale. La premessa dice che è «uno strumento per aiutare il Paese a ripartire» insieme a legge elettorale, taglio dei costi della politica, eliminazione delle rappresentanze politiche di Province e Senato, riduzione del numero e del compenso dei consiglieri regionali.
Il primo titolo della bozza è “Sistema” ed è dedicato in gran parte alla riduzione «del 10% il costo per le aziende, soprattutto per le piccole imprese che sono quelle che soffrono di più», e agli interventi sulle tasse: «Chi produce lavoro paga di meno, chi si muove in ambito finanziario paga di più, consentendo una riduzione del 10% dell’Irap per le aziende». Che, guarda caso, sono i due principali temi discussi da Letta negli incontri con le forze politiche avviate sin da ieri per il nuovo «contratto per il governo».
Il secondo capitolo riguarda la creazione di posti di lavoro e rimanda alle regole: semplificazione delle norme, riduzione delle varie forme contrattuali, verso «un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti», «assegno universale per chi perde il posto di lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro», agenzia unica per l’impiego, e «legge sulla rappresentatività sindacale e presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei cda delle grandi aziende».
Il testo della bozza è stato inviato ieri nelle caselle di posta elettronica di «parlamentari, circoli, addetti ai lavori per chiedere osservazioni, critiche, integrazioni» per essere poi presentato, in versione più o meno definitiva, alla Direzione nazionale di giovedì 16 gennaio.
Parte da qui l’irritualità di Matteo Renzi nel disegnare la nuova linea della segreteria democratica. L’aveva già fatto a inizio anno con la Enews sulla legge elettorale inviata tramite newsletter ai follower e al partito. Renzi prevede “resistenze” al testo, ma non rinuncia alle solite bordate al governo, soprattutto dopo il dietrofront sul prelievo forzoso agli insegnanti (il terzo consecutivo dopo il salva-Roma e la Tasi): «Ora, a me va bene tutto. Ma le figuracce gratis anche no. Stamattina il Governo ci ha messo una pezza. Era già accaduto con le slot machines, con gli affitti d’oro, con le polemiche dell’Anci: dobbiamo trovare un modo diverso di lavorare insieme. Non sono affezionato alle liturgie della prima repubblica con gli incontri di delegazioni: mi è sufficiente che si prenda un impegno chiaro con i cittadini e si rispetti». Il segretario ha comunque ribadito che non metterà scadenze al governo, tant’è che ormai pare certo che l’esecutivo Letta andrò avanti fino al 2015. Però non è ancora chiaro quale sarà il prezzo che dovrà pagare per questa difficilissima coabitazione.
In settimana inizierà il primo giro di consultazioni con le forze politiche, a partire da quelle di maggioranza. Nel frattempo la legge elettorale sarà incamerata per passare nella corsia referenziale prima della definitiva approvazione al Senato a fine febbraio. Sempre se tutto va bene. Ma prima, entro fine gennaio, Palazzo Chigi riunirà la maggioranza per il nuovo “contratto di governo” che presumibilmente sarà tutt’altro che facile. L’unica certezza, senza la scure del voto a maggio, è che non sarà un dibattito isterico.
Per Renzi l’ultimo tassello rimasto è come trasformarsi da principale oppositore a principale sostenitore del governo. La “vittoria” sul ministro Saccomanni per gli scatti di anzianità degli insegnanti, derubricata dal titolare di via XX settembre come «difetto di comunicazione», è stata solo l’ultima di una lunga serie di tristi interventi da parte di un po’ tutti i ministri (leggere “aumentiamo le aliquote per finanziare le detrazioni” suona come una macabra presa in giro). Ma per quanto tempo può ancora andare avanti così? Difficile dirlo, specialmente se pensiamo che sembra impossibile, conoscendo il soggetto, che il governo si possa permettere il lusso di ridicolizzare il principale azionista di maggioranza.
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