I primi cento giorni definiscono spesso il destino di una presidenza. Per Donald Trump, i dati emersi dal primo sondaggio post-elezioni raccontano una fase iniziale segnata da consenso fragile, tensioni politiche crescenti e rischi che si affacciano all'orizzonte.

Nella storia politica americana, i primi cento giorni rappresentano una soglia simbolica. Da Franklin D. Roosevelt in poi, ogni presidente è stato giudicato in base alla rapidità e all’efficacia con cui ha saputo imprimere una direzione al Paese. Non si tratta di un vincolo istituzionale, ma di un test di leadership, di capacità di orientare consenso e di stabilire priorità.

Il primo sondaggio New York Times/Siena College dopo le elezioni offre pochi dubbi su come Donald Trump stia attraversando questa fase cruciale: il bilancio appare profondamente negativo.

L’indice di approvazione del presidente si attesta al 42 per cento, mentre il favore personale è sceso al 43 per cento, segnando il punto più basso da luglio scorso. La gestione di ogni principale questione politica testata riceve un giudizio sfavorevole, inclusi ambiti tradizionalmente solidi come economia e immigrazione.

Due terzi degli elettori definiscono il secondo mandato “caotico”, mentre quasi sei su dieci ritengono che l’aggettivo “spaventoso” descriva almeno in parte l’attuale amministrazione. I dati indicano un malcontento esteso e profondo, che difficilmente può essere archiviato come semplice fisiologia politica.

Confrontando i risultati con quelli di altri presidenti nello stesso arco temporale, il quadro appare ancora più severo. Tradizionalmente, i primi cento giorni sono il momento di massima popolarità. Joe Biden, nel 2021, veniva addirittura paragonato a Franklin D. Roosevelt; persino amministrazioni poi segnate da crisi interne, come quelle di Jimmy Carter o George W. Bush, godevano ancora di approvazioni superiori al 50 per cento. Una perdita così rapida di fiducia segnala un’avvio fragilissimo.

Rispetto alle aspettative di gennaio, il disallineamento è evidente. Dopo la vittoria elettorale, Trump sembrava aver creato le condizioni per un rafforzamento duraturo della destra populista. L’immigrazione, la lotta contro il “woke”, la sicurezza economica e il rilancio energetico offrivano spazi reali per consolidare il consenso. Tuttavia, l’approccio adottato – caratterizzato da estremismi e forzature – ha trasformato potenziali punti di forza in elementi divisivi.

Lo sguardo retrospettivo sui primi cento giorni rivela una traiettoria politica aggressiva: l’apertura di una guerra commerciale globale, la rivendicazione di poteri esecutivi straordinari, i tagli drastici a programmi federali e l’attacco diretto alle istituzioni costituzionali. Il 37 per cento degli americani interpreta le iniziative presidenziali come tentativi di sovvertire l’ordine esistente, mentre la maggioranza degli elettori considera i cambiamenti introdotti come dannosi.

La resilienza dell’indice di gradimento – rimasto sostanzialmente in linea con le medie storiche di Trump – può suggerire una certa stabilità, ma presenta limiti evidenti. Le tensioni accumulatesi non sembrano ancora completamente riflesse nei dati attuali, lasciando presagire ulteriori cali in assenza di correzioni di rotta.

Proiettando l’analisi verso i prossimi 1.365 giorni, emergono rischi strutturali. La maggioranza degli elettori ritiene che il presidente abbia già abusato dei suoi poteri, mentre solo minoranze marginali giustificano iniziative come l’incarcerazione di cittadini statunitensi all’estero o il disconoscimento delle decisioni della Corte Suprema.

Anche la gestione dell’economia si rivela un tallone d’Achille: il 50 per cento giudica peggiorata la situazione economica sotto Trump, contro un 21 per cento che ne riconosce miglioramenti. Se la politica dei dazi dovesse precipitare il Paese in una recessione, l’attuale fragile equilibrio potrebbe spezzarsi.

Oggi, l’indice di approvazione non rappresenta ancora una minaccia esistenziale per la presidenza. Tuttavia, un ulteriore indebolimento potrebbe dissolvere quell’aura di invulnerabilità che finora ha protetto Trump dalle sfide interne ed esterne. Il rischio non riguarda solo il sostegno popolare, ma anche la tenuta del rapporto con il Congresso e la resistenza delle istituzioni di controllo.

Nella storia americana, pochi presidenti sono riusciti a invertire un trend negativo consolidato nei primi cento giorni. Trump si trova ora di fronte allo stesso banco di prova: dimostrare che la fase iniziale non definisce l’intero mandato, oppure consegnarsi alla logica che da quasi un secolo collega la fragilità politica dei primi cento giorni a una presidenza destinata alla debolezza strutturale.

In questa prospettiva, il ruolo della società civile e delle istituzioni indipendenti assume una centralità imprescindibile. L’esperienza insegna che nei momenti di tensione tra potere esecutivo e diritti fondamentali, la tenuta democratica dipende in larga parte dalla vitalità degli attori sociali, dal coraggio dei media, dalla fermezza della magistratura e dalla consapevolezza collettiva. Non si tratta soltanto di numeri o sondaggi: la qualità della democrazia si misura nella capacità di reagire ai tentativi di concentrazione del potere e di difendere, anche quando sembra impopolare o rischioso, il principio che nessun leader può collocarsi al di sopra delle regole comuni.