Ci vorrebbe un amico, cantava Venditti. E avrebbe bisogno di un amico anche questo governo: ma uno buono, che non abbia paura di dubitare. Anche di destra, perché le brave persone si trovano ovunque; uno però che sappia che il dissenso non si elimina con il silenzio.
Costruire un’egemonia culturale non significa mettere il bavaglio a chi esprime le proprie idee, vietare manifestazioni o ostacolare persino forme di resistenza pacifica in stile Gandhi. Non sto parlando della pseudo-manifestazione pro Palestina del 5 ottobre. Non ha senso esercitare pressioni su chi lavora in un museo solo perché considera inappropriato usarlo come palcoscenico per la propaganda politica.
Allo stesso modo, non si può semplicemente cancellare programmi seguiti da un pubblico affezionato per sostituirli con contenuti che non attirano l’interesse di nessuno. Certo, non stiamo dicendo che gli ascolti siano tutto, ma se decidi di cambiare qualcosa, devi dimostrare che c’è una parte del Paese che si riconosce in questa nuova proposta, che si sente rappresentata per la prima volta. Se questo non accade, forse è il momento di riflettere: ciò che piace e interessa alla gente non si impone con un decreto o nominando i propri fedelissimi.
Il coraggio che manca
Alla destra di governo servirebbe qualcuno con una preparazione solida, uno che abbia studiato filosofia, storia, dottrine politiche. Certo, persone competenti a destra ci sono, ma serve anche il coraggio di dire che moltiplicare sanzioni, censure e regole non risolve nulla. Le regole non spiegano, non convincono; impongono. E spesso, ciò che viene imposto si percepisce come ingiusto, da cambiare. La storia umana è piena di battaglie contro regole sbagliate. Le proteste, i referendum, le manifestazioni politiche hanno portato progresso, soprattutto sui diritti. È normale che Giorgia Meloni tema un referendum sull’autonomia differenziata, perché è uno strumento democratico che rispecchia il volere del popolo.
Quando Meloni ha preso il potere, forte di un consenso personale enorme, aveva promesso che mai avrebbe limitato la libertà di manifestare. Lei veniva dalle strade, dalle proteste minoritarie della destra, orgogliosamente underdog. Poi però, una volta a Palazzo Chigi, sono partite censura, sostituzioni e sanzioni contro chi esprimeva opinioni diverse. E si è arrivati a un assurdo decreto sicurezza: una lista di divieti, alcuni davvero crudeli. Come si fa a giustificare il divieto per un migrante senza permesso di soggiorno di comprare una sim per comunicare con la famiglia? Non basta dire che non devono venire o non devono lavorare in nero.
I divieti non cambiano la realtà: bisogna affrontarla. Eliminare le conseguenze del dolore non elimina il dolore. Bloccare il pensiero non cancella le idee, semmai aumenta il malessere, riempie le carceri di persone già in situazioni disumane. Lo abbiamo visto con i premi agli agenti che hanno picchiato i detenuti a Santa Maria Capua Vetere. Che vergogna.
L’egemonia culturale della destra
La destra è ossessionata dall’idea di egemonia culturale. Vuole eliminare quella “di sinistra” e imporre la propria. Ma questa non è una novità: chi governa cerca sempre di farlo. La disillusione verso la politica e il crescente astensionismo derivano proprio da questo. Chi governa dovrebbe invece dare voce anche alle minoranze, nel rispetto del bene comune. E invece questa destra, peggio persino del ventennio berlusconiano, mostra un disprezzo per il diverso, un atteggiamento distruttivo e dispotico mai visto prima. Non è capace di mettersi nei panni degli altri, di comprendere. Nonostante i crocifissi al collo e la retorica familiare, manca di umanità. Solo chi non è sicuro di sé non dubita mai.
È una destra fragile, spaventata, chiusa. Vuole comandare, ma dovrebbe guidare. Non si cancella il dissenso con una legge, non funziona così. Speriamo che qualcuno tra i loro amici e alleati glielo faccia notare, altrimenti toccherà a noi, anche a rischio di finire nelle liste nere, di non lavorare mai più, o peggio. Non è una prospettiva entusiasmante, ma il tempo passa, Mattarella non sarà sempre presente, e la Corte Costituzionale non può fare tutto. Dobbiamo prendere posizione, protestare quando necessario, perché restare fermi non è un’opzione.
I migranti in Albania
Il governo di centrodestra ha puntato su due progetti simbolici per lasciare il segno: l’hotspot in Albania e il ponte sullo Stretto. Due opere che, nelle intenzioni, dovrebbero rappresentare un’Italia che si afferma nel mondo con infrastrutture dal forte valore propagandistico e un’identità nazionale riconoscibile. Ma dietro le dichiarazioni altisonanti, emergono contraddizioni profonde, problemi concreti e interrogativi difficili da ignorare.
Partiamo dall’hotspot albanese, un progetto che lancia un messaggio chiaro: spostare il problema dell’immigrazione fuori dai confini italiani. La scelta di esternalizzare la gestione dei migranti è una strategia già vista altrove, ma che qui assume connotati particolarmente controversi. Pensiamo alle immagini: sedici migranti circondati da militari italiani sul suolo albanese evocano sia il dramma eterno della migrazione, carico di storie di fuga e speranze infrante, sia un processo politico che sembra voler rimuovere le complessità e i conflitti legati a questo fenomeno globale.
Lontano dagli occhi
L’obiettivo dichiarato è ridurre le tensioni sociali che l’immigrazione genera, spostando i flussi lontano dallo sguardo pubblico. Ma funzionerà davvero? Questo piano, allineato con l’ideologia della destra europea, promette di diminuire le partenze verso l’Europa e di contrastare l’immigrazione irregolare. Tuttavia, restano dubbi enormi sulla sua capacità di centrare questi obiettivi senza calpestare i diritti umani sanciti dalle convenzioni internazionali, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione italiana.
Basta guardare a come funziona il sistema attuale durante gli sbarchi: un’operazione complessa e articolata che coinvolge guardia costiera, polizia, personale sanitario, mediatori e organizzazioni umanitarie. Ogni figura ha un ruolo chiaro, e già in questa prima fase si identificano bisogni sanitari e richieste di protezione. Con il sistema albanese, tutto questo viene ridotto drasticamente. Dopo uno screening accelerato, spesso basato quasi esclusivamente sulla nazionalità, chi non è ritenuto idoneo a entrare in Italia viene rispedito in Albania, in un meccanismo che appare più punitivo che efficace.
Il problemi dei costi
C’è poi il problema della capienza: gli hotspot albanesi, secondo le stime più ottimistiche, potranno accogliere alcune decine di migliaia di persone all’anno, mentre gli sbarchi in Italia superano già il doppio di questa cifra. A ciò si aggiunge il costo impressionante dell’operazione, stimato intorno agli 800 milioni di euro entro il 2028. Una spesa enorme per un sistema che sembra fragile già sulla carta.
Le criticità legali sono ancora più gravi. Le persone trasferite in Albania, se chiedono asilo, potranno essere trattenute solo dopo la convalida di un magistrato a Roma, come previsto dall’ordinamento italiano. Ma la distanza e l’assenza di associazioni di tutela sul campo rendono tutto più complicato: i colloqui con avvocati, interpreti e mediatori avverrebbero da remoto, con il rischio di compromettere la correttezza delle procedure.
E poi c’è il nodo cruciale: che ne sarà dei migranti ai quali viene negato l’asilo? I rimpatri sono già un problema irrisolto in Italia, con un’efficacia storicamente bassa, intorno al 50%. Cosa succederà a chi non potrà essere rimpatriato? Resterà senza documenti in Albania o tornerà in Italia? Senza una risposta chiara, il sistema rischia di trasformarsi in un enorme circolo vizioso, senza soluzioni reali.
Questi nodi, nemmeno sfiorati dall’accordo con l’Albania, mettono a rischio l’intero progetto. Invece di risolvere il problema, il governo potrebbe trovarsi con un sistema inefficace e costoso, più orientato a mostrare i muscoli che a gestire l’immigrazione con realismo e umanità. L’impressione, per ora, è che questo piano rischi di diventare una nuova “campagna d’Albania” – con tutti i disonorevoli fallimenti che un paragone simile porta con sé.
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