L'obiettivo del nuovo Department of Government Efficiency, annunciato da Elon Musk durante la campagna elettorale, è ridurre la spesa pubblica di 2.000 miliardi di dollari entro diciotto mesi, pari a un terzo del bilancio federale. Una proposta ambiziosa che solleva dubbi sulla sua realizzabilità e sugli effetti concreti.

Si chiama Doge, e il nome appare particolarmente evocativo. Il tono è solenne, quasi istituzionale, richiamando un’idea di autorità che sembra appartenere a un’altra epoca. Il manifesto del nuovo Department of Government Efficiency, creato da Donald Trump e guidato da Elon Musk e Vivek Ramaswamy, è un documento ambizioso, che punta a riformare radicalmente la gestione della spesa pubblica federale. Si tratta di una visione che, seppur audace, solleva domande sulla sua effettiva realizzabilità e sugli impatti concreti che potrebbe generare.

Tagli alla sanità

L’obiettivo principale, dichiarato proprio da Elon Musk durante la campagna elettorale, è ridurre la spesa pubblica di 2.000 miliardi di dollari entro diciotto mesi, una cifra immensa che corrisponde a circa un terzo del bilancio federale. Per mettere questa cifra in prospettiva, è utile analizzare la composizione del bilancio stesso: quasi la metà è destinata a programmi di trasferimenti alle famiglie, come Medicare e Medicaid, circa 1.100 miliardi vanno agli stati e una quota analoga copre gli interessi sul debito pubblico. La parte che può essere gestita direttamente attraverso riforme amministrative è quindi limitata a circa 1.300 miliardi, suddivisi tra spese per beni e servizi e salari dei dipendenti pubblici.

Anche considerando scenari estremi, come l’eliminazione completa delle spese per beni e servizi o la riduzione drastica del personale pubblico, la meta resta estremamente difficile da raggiungere. Questo suggerisce che il piano necessiterebbe di una revisione dettagliata per definire misure più realistiche e sostenibili.

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Nel dettaglio, il manifesto propone di concentrarsi sull’eliminazione degli sprechi. Tuttavia, i dettagli su cosa venga considerato “spreco” rimangono vaghi. Tra gli esempi forniti figurano tagli a finanziamenti come i 535 milioni di dollari per la Corporation for Public Broadcasting e 300 milioni per organizzazioni come Planned Parenthood (l’organizzazione che si batte in favore della legislazione abortista e dell’educazione sessuale). Nonostante questi numeri possano sembrare significativi, rappresentano una frazione minima rispetto ai tagli complessivi previsti.

Snellire burocrazia e personale

Un altro aspetto centrale riguarda la semplificazione normativa, con l’obiettivo di ridurre le regole considerate obsolete o non essenziali. Si tratta di un approccio che, se attuato con equilibrio, potrebbe snellire i processi burocratici e rendere più accessibile l’interazione tra cittadini, imprese e amministrazioni. Tuttavia, un’operazione di questa portata richiederebbe una valutazione attenta per evitare effetti indesiderati sul funzionamento dei servizi pubblici.

Anche la riduzione del personale pubblico è menzionata come elemento chiave. Negli Stati Uniti, tuttavia, il numero di dipendenti pubblici è già significativamente più basso rispetto alla media dei paesi OCSE. Inoltre, il settore pubblico americano si distingue per un tasso di assenteismo inferiore rispetto al settore privato, un dato che suggerisce una certa efficienza nell’utilizzo delle risorse umane disponibili.

In generale, l’ambizione del piano si accompagna a sfide significative. Se implementate con una visione pragmatica e basate su analisi rigorose, alcune delle proposte potrebbero rappresentare opportunità per migliorare il sistema amministrativo. Tuttavia, l’efficacia complessiva del progetto dipenderà dalla capacità di bilanciare riforme ambiziose con la tutela delle funzioni fondamentali delle istituzioni pubbliche.

Una leadership adattabile

Nella newsletter della scorsa settimana vi ho parlato di quanto Trump e il suo entourage siano convinti che le difficoltà della sua prima amministrazione siano state causate da un “deep state” ostile. Questo punto di vista, però, sembra ignorare come molti dei problemi siano derivati direttamente dal suo approccio alla politica e alla gestione del potere. Il trumpismo, infatti, si basa su alcuni princìpi centrali – la fedeltà personale al leader, il nazionalismo e un orientamento illiberale – ma non possiede una visione politica strutturata o coerente.

Si può pensare a Trump come a una figura politica “adattabile”, una sorta di scatola vuota che viene riempita, di volta in volta, da finanziatori, elettori, leader di partito e altri soggetti influenti con idee e progetti diversi. In campagna elettorale, questa elasticità si traduce in dichiarazioni che spesso sono in contraddizione tra loro. Eppure, paradossalmente, questo viene percepito come un punto di forza: il movimento appare aperto e inclusivo, una qualità che si contrappone alla maggiore rigidità ideologica attribuita al Partito Democratico. Inoltre, l’ostilità verso la sinistra diventa un collante che unisce gruppi e individui con interessi anche molto diversi.

In questo contesto, chi ha un peso significativo – come Elon Musk o altri grandi imprenditori – tende a sostenere Trump non tanto per le sue idee, ma per l’opportunità di influenzare le scelte politiche una volta al potere.

Questa flessibilità, che in campagna elettorale può essere un vantaggio, diventa un problema quando si tratta di governare. Le nomine e le decisioni chiave si basano spesso sul grado di fedeltà personale piuttosto che su competenze o visioni politiche coerenti. Questo crea inevitabilmente disaccordi tra correnti interne che spingono in direzioni opposte, contribuendo al caos politico.

Due fazioni in lotta

Un esempio di queste tensioni è evidente già nelle nomine attuali. Si prevede che la prossima amministrazione sarà segnata dalle stesse contraddizioni che hanno caratterizzato la prima, come ha spiegato Zack Beauchamp su Vox. Alla base c’è una differente interpretazione di cosa rappresenti il trumpismo e di quali priorità debba avere.

Secondo Beauchamp, si possono distinguere due grandi fazioni all’interno del movimento. L’ala libertaria e pro-business è rappresentata da Elon Musk, Vivek Ramaswamy e le élite economiche repubblicane. Questa fazione vede il trumpismo come un’opportunità per ridurre il ruolo dello Stato, promuovere il libero mercato e favorire l’innovazione. I loro obiettivi principali includono massicci tagli fiscali e un ridimensionamento del governo federale, anche attraverso la riduzione dei programmi di assistenza sociale.

La seconda fazione è rappresentata dai nazionalisti e conservatori sociali di cui fanno parte personaggi come Stephen Miller, che promuove politiche protezionistiche, espulsioni di massa degli immigrati e un’agenda più incentrata sul conservatorismo cristiano. Questi esponenti non vedono di buon occhio il libero mercato, sostengono i dazi e le restrizioni sull’immigrazione e, in alcuni casi, sono disposti a limitare il potere delle grandi aziende per preservare la coesione sociale, ma che potrebbero entrare in conflitto con gli interessi economici dei primi.

Le divergenze tra queste due anime si riflettono anche in politica estera. Da un lato, ci sono personalità come Marco Rubio (Segretario di Stato) e Michael Waltz (Consigliere per la Sicurezza Nazionale), che sostengono un approccio aggressivo per mantenere la supremazia globale degli Stati Uniti, contrastando rivali come Cina e Russia. Dall’altro lato, figure come Pete Hegseth (Segretario alla Difesa) e Tulsi Gabbard (Direttora dell’Intelligence), vicine all’approccio “America First”, preferiscono una politica estera più isolazionista, concentrandosi sulla sicurezza interna e sugli interessi nazionali ristretti, persino con proposte aggressive tipo l’intervento militare in Messico.

Una visione che prospera nel caos

Queste contraddizioni non sembrano destinate a risolversi, anche perché Trump stesso non ha una visione chiara e tende a prosperare nel caos.

L’organizzazione della nuova amministrazione ha già mostrato segni di disordine. Trump sta ignorando alcune prassi consolidate per garantire una transizione ordinata, come i controlli dell’FBI sulle persone nominate a ruoli chiave, necessari per verificare eventuali conflitti di interesse o rischi per la sicurezza nazionale.

Questo ha già portato a problemi significativi. Ad esempio, Matt Gaetz, inizialmente scelto come ministro della Giustizia, ha dovuto ritirare la propria candidatura a causa di accuse di condotta inadeguata, ed è stato sostituito da Pam Bondi, ex procuratrice generale della Florida. Altri nomi, come Pete Hegseth, sono già in bilico per motivi simili.

Anche la nomina di figure come Chris Wright, imprenditore dell’industria energetica e negazionista climatico al dipartimento dell’Energia; al Tesoro (cioè ministro dell’economia) ha nominato Scott Bessent, gestore di un hedge fund favorevole ai tagli allo stato sociale, alla deregolamentazione economica e ai dazi sulle merci importate; l’ex capa del wrestling americano Linda McMahon al dipartimento dell’Istruzione, o Mehmet Oz (al Medicare e Medicaid), riflette una tendenza a privilegiare la lealtà e l’ideologia rispetto alle competenze specifiche.

Nonostante i collaboratori di Trump insistano sul fatto che questa amministrazione sarà più efficiente della prima, le premesse non sembrano confermarlo. Le contraddizioni ideologiche, l’approccio poco strutturato e le difficoltà organizzative potrebbero riproporre le stesse dinamiche caotiche che hanno segnato il suo primo mandato. La vera sfida sarà capire se questa volta Trump riuscirà a imporre un minimo di coerenza e disciplina a un movimento che si nutre delle proprie contraddizioni.

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