Le differenze sono preziose, ma non tutte le differenze sono uguali. Non parlo di diversità, di dissenso, di disaccordo. Queste sono parole deboli, che possono nascondere il conformismo, l’opportunismo, la rassegnazione. Parlo di differenza nel senso forte del termine: di divaricazione, di divisione. Di una frattura che si apre e si allarga, che non si chiude e non si ricuce. Di una differenza che non si arrende alla fusione, alla somiglianza, all’omologazione.
Questa è la differenza che ha fatto la storia della sinistra e del femminismo, fin dalle loro origini. Una differenza radicale, irriducibile, intransigente. Una differenza che ha saputo sfidare il potere, contestare l’ordine stabilito, proporre alternative concrete e credibili. Una differenza che ha saputo creare movimenti, partiti, sindacati, cooperative, associazioni, reti. Una differenza che ha saputo cambiare il mondo.
La sinistra
Oggi non esistono più differenze tra destra e sinistra: si è persa negli ultimi trent’anni. La sinistra ha smesso di essere diversa dalla destra. Ha smesso di essere divaricante e divisiva. Ha smesso di essere politica. Si è adeguata al neoliberismo, cioè all’imperio del capitale. Si è piegata alla speculazione finanziaria ma anche alla cultura di vita borghese, classista e votata ai principi del (l’im)merito, del prestigio sociale, dell’invidia verso il ricco e verso il lusso, della subalternità al potere. Si è lasciata ingannare dai governi tecnici, dai governi di unità nazionale, dai patti di stabilità, dal «lo vuole l’Europa». Si è lasciata sedurre dal culto del successo trasmesso 24 ore su 24 nelle Tv e sui social media.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non ci sono più differenze fra destra e sinistra. Il nuovo senso comune lo dice e ha ragione. Le strade si sono reincontrate sotto il segno del più forte: la politica è andata tutta a destra.
La sinistra ha un problema: non sa più cosa la unisce. Non basta il pacifismo, che non riesce a superare le differenze di fronte alle tragedie del mondo, come quella che sta vivendo la Palestina. Non bastano le condizioni economiche, che non creano più una coscienza di classe. Non basta la solidarietà, che non si estende oltre i confini dei lavoratori e dei popoli. Non bastano le lotte, che restano isolate e senza eco. La sinistra si perde nel differire, nel sottolineare ciò che la divide invece di ciò che la accomuna. Ma è davvero questo l’approccio più intelligente? Forse il problema è che non abbiamo più chiaro cosa ci unisce. Forse dobbiamo ripartire da lì.
Il femminismo
Il femminismo ha un problema simile: non sa più quando usare la differenza e quando no. La differenza sessuale è stata il motore di una rivoluzione del pensiero, che ha sfidato la pretesa dell’uomo di rappresentare l’umanità. Il femminismo ha mostrato che esiste un altro modo di vedere il mondo, diverso e irriducibile a quello maschile. Ma la differenza non può diventare un feticcio, una scusa per giustificare i totalitarismi buoni, per alimentare il razzismo identitario, per confondere la narrazione con la verità. Il femminismo deve saper distinguere quando la differenza è una risorsa e quando è un ostacolo.
Viviamo in un mondo alla rovescia, dove i valori si sono capovolti e le parole hanno perso il loro significato. Non ci serve il pamphlet di un generale per accorgercene. Ci serve una bussola per orientarci. E forse quella bussola è proprio la differenza: quella che ci fa capire chi siamo e cosa vogliamo, ma anche quella che ci fa dialogare con gli altri e trovare punti di incontro.
Il femminismo oggi si trova di fronte a due strade pericolose, piene di trappole. Una è quella identitarista, che si aggrappa a un’idea di «donna» basata solo sulla biologia o sulla maternità. Questa idea diventa una bandiera da sventolare quando fa comodo, per rivendicare diritti o vantaggi, per giocare la carta della vittima o della self-made woman. Lo vediamo spesso nelle leader politiche o nelle star dello spettacolo, come Giorgia Meloni o Taylor Swift, che usano la parola «donna» non per sentirsi parte di un gruppo, ma per difendersi dagli attacchi o dalle invidie: sono donna e sono al potere, quindi non potete criticarmi.
Essere donna
L’altra strada è quella che confonde la differenza con la diversità. Il soggetto «donna», che in filosofia e in politica si definisce autonomamente rispetto all’uomo, si è frammentato in una serie di intersezioni tra vari aspetti di diversità. Questi aspetti sono importanti, ma non cancellano il fatto che tutte le donne vivono «nella società degli uomini», come diceva Eva Figes 50 anni fa. La differenza è stata inghiottita dalle diversità. Il soggetto «donna» ha perso la sua unità e la sua forza.
Non basta dire che le donne sono diverse, dobbiamo agire per cambiare le cose, di come la condizione femminile sia ancora segnata da una profonda ingiustizia, che non dipende dalle nostre scelte personali, ma da un sistema che discrimina e limita. Non importa se siete bianche o nere, cis o trans, etero o lesbiche, madri o no: siete donne in un mondo fatto per gli uomini, e questo vi rende vulnerabili e subordinate. Il potere che gli uomini hanno su di voi non è naturale, ma costruito, e può essere smantellato, o meglio, reinventato, partendo da una critica radicale delle disuguaglianze che produce, sotto forma di sfruttamento, oppressione, violenza. Questa è la vera sfida politica che dobbiamo affrontare.
Purtroppo, chi dovrebbe occuparsi di questa sfida si è distratto, o peggio, si è arreso. Si parla tanto di diversità, ma si fa poco per la differenza. Si celebra la varietà, ma si ignora l’unità. Si riconoscono i diritti, ma si negano le rivendicazioni. Si finge di ascoltarvi, ma si continua a dominarvi. Questo è il gioco delle parti che dobbiamo smascherare e ribaltare. Dovete – dobbiamo! – riprendere la parola e l’azione, e far sentire la nostra voce e la nostra forza. Dobbiamo – dovete! – essere protagoniste del cambiamento che vogliamo vedere nel mondo.
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