Negli ultimi mesi, il Medio Oriente ha vissuto un vero e proprio terremoto geopolitico ed economico. Le certezze che sembravano intoccabili, le strategie di deterrenza consolidate e le leadership di lungo corso sono state travolte dagli eventi del 7 ottobre 2023. L’attacco e la violenta reazione israeliana su Gaza e in Cisgiordania hanno innescato un’escalation su più fronti: dallo Yemen al Libano, fino all’Iran. È iniziato un processo di ridefinizione degli equilibri regionali che, al momento, è ancora in piena evoluzione e nessuno sa davvero dove porterà.
Sul fronte economico, invece, la situazione è stata meno drammatica di quanto si temeva all’inizio. Nonostante il duro colpo per l’economia locale, a livello globale – e soprattutto nel settore energetico – l’impatto non è stato così devastante come ci si aspettava. Tuttavia, con l’attacco iraniano a Israele del 1° ottobre, le cose potrebbero cambiare velocemente. Come reagiranno i mercati se si arriverà a uno scontro aperto tra Israele e Iran? Cosa accadrebbe se le infrastrutture petrolifere iraniane o i giacimenti di gas naturale israeliani venissero colpiti? E, infine, quale sarà il destino dei tentativi di cooperazione economica regionale che erano in corso prima che tutto precipitasse?
Petrolio e gas: come l’escalation impatta sui mercati energetici
Nel primo anno di guerra, non abbiamo visto quel temuto aumento generale dei prezzi di petrolio e gas naturale, salvo durante le fasi più critiche del conflitto, come l’attacco iraniano con missili e droni tra il 13 e il 14 aprile. Anche quando, a fine settembre, l’operazione di terra in Libano ha fatto seguito all’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, i prezzi del petrolio sono rimasti stabili attorno ai 70 dollari al barile. L’Arabia Saudita, che stava valutando di aumentare la produzione, sembrava indirizzarsi verso una stabilizzazione dei prezzi nell’ultimo trimestre dell’anno.
Tuttavia, questo scenario è cambiato con l’attacco missilistico iraniano a Israele di un paio di settimane fa. Il prezzo del Brent è aumentato dell’8% in pochi giorni, arrivando a superare i 78 dollari al barile, segnando il più alto incremento settimanale dal gennaio 2023.
Dopo l’attacco, Israele ha promesso una risposta adeguata e si è subito parlato di una possibile rappresaglia contro le infrastrutture petrolifere iraniane. L’Iran, con i suoi 3,3 milioni di barili prodotti al giorno, è il terzo maggiore produttore di greggio dell’OPEC, coprendo il 3% della produzione mondiale. Di questi, 1,7 milioni di barili al giorno vengono esportati, in gran parte verso la Cina, aggirando le sanzioni americane.
Cosa potrebbe succedere ora ai mercati energetici dipenderà dall’ampiezza della reazione israeliana e dagli obiettivi colpiti: sarà il terminale dell’isola di Kharg nel Golfo Persico, da cui passa il 90% delle esportazioni di greggio iraniano? O colpiranno le raffinerie, magari quella del Golfo Persico, che da sola copre il 40% del fabbisogno di benzina dell’Iran? O forse l’Iran reagirà bloccando lo Stretto di Hormuz, da cui passa il 35% del petrolio mondiale trasportato via mare e il 21% del gas naturale liquefatto? La reazione di Teheran e degli altri Paesi del Golfo sarà cruciale.
Aumenteranno i combustibili fossili
Secondo gli esperti di Clearview Energy Partners, se venissero imposte nuove sanzioni all’Iran il prezzo del petrolio potrebbe aumentare di 7 dollari al barile. Se Israele colpisse le infrastrutture energetiche iraniane, si parla di un rialzo di 13 dollari, mentre un blocco del flusso attraverso lo Stretto di Hormuz potrebbe far lievitare i prezzi di 28 dollari al barile, o addirittura farli schizzare fino a 150 dollari.
Anche il mercato del gas non è immune a questa instabilità. L’attacco iraniano ha temporaneamente fermato la produzione del giacimento israeliano di Leviathan, mentre Teheran ha minacciato di colpire altri giacimenti israeliani in caso di rappresaglia.
Israele produce circa 22 miliardi di metri cubi di gas all’anno e copre il 3,9% delle forniture globali di gas naturale liquefatto. Se l’Iran attaccasse, non solo l’economia israeliana ne soffrirebbe, ma anche quella dei suoi principali clienti, Giordania ed Egitto. In particolare, la situazione in Egitto è critica: tra blackout continui e una produzione interna in calo, il Paese dipende sempre di più dal gas israeliano, che ad ottobre potrebbe coprire un ulteriore 20% del suo fabbisogno.
In un contesto così volatile, l’impatto sulle forniture e sui prezzi dell’energia è un’incognita che dipenderà dagli sviluppi militari e politici dei prossimi giorni.
Il quadro è già compromesso
Un’escalation tra Israele e Iran porterebbe a un aumento drammatico dei costi economici nella regione, che già nell’ultimo anno ha sofferto pesanti perdite. A livello globale, gli effetti della guerra sono stati in parte ammortizzati dalla situazione dell’economia attuale, come il rallentamento della crescita cinese e il calo dell’inflazione. Ma in Medio Oriente, un conflitto crescente tra Tel Aviv e Teheran potrebbe peggiorare una situazione già critica, specialmente per paesi come Iran, Israele, Palestina, Libano, Giordania ed Egitto, che sono direttamente coinvolti.
Iran
L’Iran, ad esempio, è già duramente colpito da anni di sanzioni, politiche economiche inefficaci, una crescita stagnante e un’inflazione altissima, attualmente al 37,5%. Anche Israele, però, non se la passa meglio: la guerra attuale è la più lunga e costosa dalla sua fondazione. La Banca d’Israele ha stimato che il conflitto potrebbe costare circa 66 miliardi di dollari, pari al 12% del PIL. Il deficit di Israele è già in aumento e ha raggiunto l’8% del PIL, con settori cruciali come il turismo, la tecnologia e le costruzioni tra i più colpiti. Il settore edilizio, ad esempio, ha perso circa 140 mila lavoratori palestinesi dall’inizio della guerra. A complicare ulteriormente le cose, c’è la mobilitazione dei riservisti, che rappresentano circa l’8% della forza lavoro del Paese.
Palestina
La Palestina sta vivendo una catastrofe economica di proporzioni enormi, ma la priorità è la crisi umanitaria. Oltre 42 mila persone sono morte nella Striscia di Gaza, mentre più di 700 hanno perso la vita in Cisgiordania. Nel primo trimestre del 2024, la Palestina ha visto crollare il suo PIL del 35%, e si stima che il tasso di povertà sia passato dal 38% al 61%. La distruzione di infrastrutture, impianti produttivi, centrali elettriche, scuole e abitazioni ha paralizzato l’economia e abbattuto i consumi.
Libano
Anche il Libano è pesantemente colpito. Le operazioni militari israeliane nel sud del Paese stanno aggravando una crisi che va avanti da oltre cinque anni. Si prevede che l’economia libanese si contrarrà del 5% quest’anno. Il Sud del Libano, una regione agricola vitale per l’economia del Paese, ha subito una paralisi economica: l’80% del PIL della zona dipende dall’agricoltura. Oltre alla distruzione di questa base economica, un milione di persone sono sfollate e il settore turistico, che nel 2023 rappresentava il 25% del PIL, è praticamente scomparso. In molti stanno cercando di fuggire: oltre 100 mila libanesi sono scappati in Siria, un Paese già devastato da 13 anni di conflitto.
Giordania
In Giordania, il tasso di crescita previsto per il 2024 si è ridotto al 2,4%, in gran parte a causa dei problemi legati all’import/export dal porto di Aqaba, compromesso dalla crisi nel Mar Rosso, e del calo del 7,2% dei flussi turistici. Località come Petra e il deserto di Wadi Rum hanno visto una drastica riduzione del turismo: molti hotel sono rimasti chiusi quest’estate, con un crollo della frequentazione turistica del 70%.
Egitto
L’Egitto soffre le conseguenze di un’altra crisi: il traffico nel Canale di Suez è diminuito del 50% a causa degli attacchi degli Houthi alle navi commerciali. I ricavi del Canale sono scesi del 23,4%, passando da 9,4 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2022/2023 a 7,2 miliardi nel 2023/2024. Sebbene l’Egitto sia riuscito ad attrarre investimenti da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, un’escalation regionale rischierebbe di interrompere questo flusso, influenzando anche le monarchie del Golfo.
Che futuro ci aspetta per la cooperazione economica in Medio Oriente?
Fino al 7 ottobre dell’anno scorso, il Medio Oriente stava vivendo un momento di distensione diplomatica tra diversi attori della regione. Molte vecchie ferite sembravano finalmente rimarginarsi: la divisione tra i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, la storica rivalità tra Arabia Saudita e Iran, le tensioni tra Turchia ed Egitto. Anche le relazioni con Israele stavano cambiando, con il processo di normalizzazione che coinvolgeva Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco.
La speranza era che un’economia con maggiore cooperazione potesse essere l’arma per stabilizzare la regione, storicamente volatile dal punto di vista geopolitico. Anche se questa apertura non aveva ancora portato a una vera integrazione economica, proprio questo ha in parte protetto l’economia locale dall’impatto del nuovo conflitto. Ora però, questa traiettoria sembra aver subito una battuta d’arresto.
Se la tensione tra Israele e Iran dovesse aumentare, allontanerà del tutto questa prospettiva? O magari il “nuovo ordine” che Israele sta cercando di imporre potrebbe aprire nuove opportunità di sviluppo? Con il mondo in attesa della reazione di Israele e della possibile risposta iraniana, le incognite sul futuro economico della regione aumentano sempre di più.
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