C'è stato un tempo in cui tutti i voti venivano contati il giorno delle elezioni, poi qualcuno dichiarava allegramente la vittoria mentre qualcun altro ammetteva la sconfitta con garbo, e il paese si svegliava la mattina dopo sapendo che la democrazia era al sicuro per altri quattro anni. Ma non è questo il caso.
Queste elezioni sono state una prova di carattere, per i candidati ma anche per l’intero paese. E quest’anno mi rendo conto di quanto poco colga il carattere americano del 2024. Trump è riuscito a ottenere una sorta di alchimia: appare insieme come vittima, outsider e simbolo del cambiamento. Questo mix è pericoloso; ha attirato l’empatia di molti, forse anche per l’eccessiva pressione delle accuse. Non è tanto la sua vittoria a colpire, quanto la rapidità con cui è arrivata e la disarmante incapacità dei democratici di mobilitare il loro stesso elettorato, soprattutto delle minoranze.
Se non ti uccide ti fortifica
Le accuse legali contro Trump sembrano quasi aver rafforzato l’immagine di una sua persecuzione. Anche i democratici, nel frattempo, si sono intrappolati su questioni culturali e di identità. Gli spot più recenti di Trump contro i temi transgender – con frasi come “lei è per ‘loro/loro,’ lui è per te” – sono state incredibilmente incisive e forse anche per questo hanno catturato l’attenzione di alcuni elettori tradizionalmente democratici. C’è l’impressione, tra questi elettori, che il partito si preoccupi troppo di questioni identitarie e trascuri le difficoltà economiche reali. Ma anche Trump non è meno consumato dall’identità, solo che è un’identità di tutt’altro genere.
Sospetto che la chiave sia la rabbia. Gli elettori non sono tanto esaltati da Trump, quanto dal loro stesso senso di insoddisfazione e dalla sensazione di essere vittime. Si sentono disprezzati da una classe dirigente che pare dimenticarli, e il loro malcontento va dagli immigrati – capro espiatorio buono per tutte le stagioni – all’economia che, pur non essendo in crisi, appare sempre insoddisfacente. Per molti, questo ha reso attraente una figura forte come Trump, con le sue pulsioni autoritarie. E dobbiamo ammettere anche un’altra cosa: l’America è un paese in cui ancora oggi molti non sopportano l’idea di una donna di colore alla presidenza.
I pregiudizi come causa
Come nel 2016, torneremo a parlare di pregiudizi. Ma ammetto che anche Kamala Harris non è stata una candidata perfetta, proprio come non lo fu Hillary Clinton. E alcuni numeri dei sondaggi fanno riflettere: Trump ha guadagnato terreno tra sindacalisti, elettori neri e latini. Questo conferma il mio pensiero che fosse un rischio per Harris, se non addirittura un errore, incentrare la campagna quasi esclusivamente su quanto sia terribile il suo avversario. È stata tatticamente brillante nell’esecuzione, meglio di quanto ci si potesse aspettare. Ma a ben vedere, gli elettori sapevano già tutto ciò che Harris poteva dire su Trump. Quello che mancava era un messaggio positivo che li facesse sentire fiduciosi votando per lei. In assenza di questo, una buona parte di elettori scontenti ha preferito il candidato pronto a dar fuoco al castello.
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Anche gli uomini di colore e gli uomini latinoamericani, categorie che si pensava si sarebbero discostate di più dai repubblicani, si sono lasciati trascinare. Una delle mosse più azzeccate di Trump e del suo team è stata proprio quella di puntare a coinvolgere questi elettori, a portarli ai seggi invece di lasciarli a casa.
È brava ma non si impegna
E se c’è una cosa che riconosco a Harris è che, come candidata, ha brillato molto più di quanto non abbia fatto da vicepresidente. In campagna sembrava a tratti ispirata, capace di trarre energia dalla folla, e a volte ricordava perfino Bill Clinton con quella capacità tutta sua di connettersi con il pubblico. Era più vivace e sicura di sé a fine campagna rispetto all’inizio, al contrario di Trump che invece appariva visibilmente esausto. D’altra parte, a 78 anni, è il presidente più anziano ad essere stato eletto a guidare la nazione.
Mi tormenta una domanda: come sarebbe andata se Biden si fosse ritirato nell’autunno del 2023, aprendo la strada a delle vere primarie democratiche per un candidato più solido? Harris ha fatto una buona campagna, ma chissà quanto più forte sarebbe stata con un anno in più per costruire rapporti con gli elettori e farsi conoscere. Non voglio dare tutta la colpa a Biden, ma credo che, guardando indietro, la scelta di restare in corsa fino a luglio verrà registrata come un errore di portata enorme. La storia probabilmente lo confermerà: avrebbe potuto, forse avrebbe dovuto, lasciare spazio a una nuova candidatura, a un volto nuovo che fosse in grado di reggere la sfida a lungo termine.
Ne parleremo ancora a lungo
Certo, potremmo essere comunque nella stessa situazione anche se si fosse ritirato un anno prima. Si potrebbe continuare a discutere a lungo, e probabilmente lo faremo, su cosa sarebbe cambiato davvero. Ma ora, la mia domanda più grande riguarda il futuro: cosa accadrà da qui in poi? I democratici dovranno inevitabilmente affrontare la questione del perché Harris non abbia fatto di più. Dovranno chiedersi se è stata la pressione interna dell’ala più progressista, o se invece è stato un errore tattico il suo spostamento verso il centro.
Sul fronte repubblicano, invece, l’interrogativo principale è se assisteremo a una vera campagna di ritorsione da parte di Trump e dei suoi. È questa la domanda che incombe davvero come una minaccia, ed è anche la più spaventosa mentre guardiamo in faccia la vittoria dell’ex presidente.
Mentre scrivo, pare probabile che Trump abbia anche ottenuto il voto popolare, primo repubblicano dal 2004 a riuscirci. Potrebbe persino superare la soglia del 50%, uno shock per molti. È come se ci trovassimo di fronte a una verità inquietante: l’America che pensavamo di conoscere forse non esiste più.
Il pensiero finale va a Kamala Harris. La vicepresidente ha dato tutto nella sua campagna, ma se ha perso, il partito e il paese dovranno trovare il coraggio di voltare pagina e scriverne un’altra.
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