Le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria non sono solo una vittoria per il centrosinistra, ma un avvertimento per chi governa. Gli elettori sanno cosa vogliono e quando la politica si allontana dai loro bisogni, trovano il modo di farsi sentire.

Gli elettori dimostrano di avere idee più chiare rispetto ai loro leader, e spesso si rivelano più determinati a costruire quell’unità che i vertici non riescono a concretizzare. Lo si è visto chiaramente nelle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria di questo fine settimana, dove l’elettorato ha scelto di compattarsi intorno a candidati credibili, a dispetto delle divisioni e della freddezza tra le forze di centro-sinistra. È un messaggio forte, una lezione per il centrosinistra, che vince quando ascolta i suoi elettori, anziché perdersi nelle dispute interne.

Essere credibili

Ma c’è un prezzo da pagare per ottenere questo risultato: i candidati devono essere scelti con criterio. L’elettorato progressista, più esigente di altri, non si accontenta di figure di bandiera o di scelte calate dall’alto. Vuole persone che conoscono il territorio, che ne condividano i problemi e che abbiano dimostrato di saper amministrare. È il caso di Stefania Proietti, sindaca di Assisi, e di Michele de Pascale, primo cittadino di Ravenna, entrambi eletti al termine di mandati apprezzati. La loro candidatura non è solo una questione di curriculum: è una scelta che riflette la prossimità, l’idea che la politica debba partire dal basso e rispondere a esigenze locali, lontana dalle logiche di palazzo.

Questa lezione non è nuova. In altre regioni, come la Liguria, il centrosinistra ha scelto nomi di spicco ma poco radicati, come l’ex ministro Andrea Orlando, e i risultati sono stati deludenti. La credibilità, soprattutto in una fase politica polarizzata come questa, passa per figure concrete e radicate, indipendentemente dal loro background. In Umbria, per esempio, il centrosinistra ha puntato su una civica con radici cattoliche; in Emilia-Romagna, su un uomo del partito. In entrambi i casi, però, ha prevalso la percezione di candidati autentici e vicini ai cittadini.

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La risposta del paese

L’altra grande lezione di queste elezioni parla direttamente al governo nazionale, e a Giorgia Meloni in particolare. Durante il comizio di chiusura a Perugia, la presidente del Consiglio aveva lanciato una sfida: “Noi non resteremo al governo della nazione contro il parere dei cittadini”. Ebbene, quei cittadini hanno risposto forte e chiaro, e non a favore del centrodestra. È un colpo duro per una coalizione che fa della connessione diretta con il popolo il proprio cavallo di battaglia, al punto da presentarsi come unica interprete della volontà popolare. Ma quando quella stessa volontà si manifesta contro di loro, i sovranisti sembrano perdere la bussola.

Lo si è visto nei commenti post-elettorali: da una parte il silenzio o la minimizzazione, dall’altra le accuse agli elettori stessi. Il leghista Simone Pillon, per esempio, ha definito gli umbri e gli emiliani come “automi che ingoiano qualsiasi candidato”. Una narrazione che, oltre a suonare come una scusa goffa e inopportuna, rivela l’incapacità del centrodestra di leggere il messaggio che arriva dalle urne.

Il voto di domenica manda un messaggio forte e chiaro a chi, da due anni, si considera l’unico vero interprete della volontà popolare. Nonostante questa presunta investitura, il governo punta a riforme divisive come il premierato e l’autonomia differenziata, portate avanti a colpi di maggioranza e ignorando il malcontento di una parte significativa del Paese. Ma i numeri raccontano una storia diversa: il consenso non è immutabile, nemmeno per Fratelli d’Italia, che in Umbria scende sotto il 20%.

La destra si può battere

Questi risultati rappresentano la prima prova concreta che il centrodestra non è invincibile e che l’Italia non si è spostata irrimediabilmente a destra. È una favola che la destra ripete come un mantra, amplificata dalle campagne sui social, ma i numeri stanno lì a dimostrare il contrario. In Emilia-Romagna, nelle zone colpite dall’alluvione, il centrosinistra ha superato la destra, e su scala regionale il Partito Democratico da solo è più forte dell’intera coalizione di destra guidata da Ugolini. È un dato significativo, anche perché contrasta con il tentativo cinico di sfruttare il disagio e la rabbia degli alluvionati per erodere il consenso del centrosinistra.

Il dato fondamentale è che il consenso non solo fluttua tra le coalizioni, ma si sposta anche al loro interno. E qui entra in gioco una riflessione obbligata sullo stato del Partito Democratico, spesso dato per spacciato eppure, ancora una volta, centrale in qualsiasi ipotesi di alternativa. I numeri di queste elezioni, con i dem sopra il 42% in Emilia-Romagna e oltre il 30% in Umbria, sono sorprendenti, tanto da richiamare l’idea di una “vocazione maggioritaria” alla Veltroni.

Il M5S è inesistente

Questi numeri, però, aprono anche un problema: un PD così forte rischia di cannibalizzare i suoi alleati, riducendoli a insignificanti “cespugli”. Questo è particolarmente evidente per il Movimento 5 Stelle, che in queste elezioni è crollato sotto il 5%. Alla vigilia della loro costituente, la prossima settimana, Giuseppe Conte si trova davanti a una scelta cruciale: continuare a inseguire una coalizione con il PD, accettando un ruolo sempre più marginale, o cercare un percorso autonomo, consapevole che la forza per camminare da soli al momento sembra mancare.

Questa dinamica si riflette anche sulle sfide del prossimo anno, con cinque regioni che andranno al voto. Sarà un test decisivo, sia per il PD che per i 5 Stelle, e più in generale per capire se il centrosinistra può davvero ricompattarsi in modo credibile e competitivo. Ma i dati di queste elezioni dimostrano che, almeno per ora, il centrodestra non è imbattibile, e il suo consenso non è quel blocco monolitico che vorrebbe sembrare.