Sono anni che si parla di partecipazione democratica, di comunicazione nel modo di esporsi al pubblico e agli elettori, usare i social in maniera equilibrata e senza lanciare o rilanciare fake news. Questo è, o dovrebbe essere, il dogma della politica ma anche del giornalismo, specialmente di qualità. Non sempre è così, anzi, spesso è esattamente il contrario.
La partecipazione democratica sembra ormai animata solo dalla gratificazione istantanea di Twitter, Facebook, Snapchat e dei canali di informazione che trasmettono ventiquattr’ore su ventiquattro. La tecnologia ci sta facendo tornare a rapporti umani primitivi. I media sanno cosa fa ascolti, perciò si concentrano su conflitti e lotte intestine. Del resto, è il modo più facile e veloce. La rabbia paga più della razionalità, l’odio più della riflessione, l’emotività più dei fatti oggettivi. Una frasetta saccente, persino farneticante, appare come autentica; le spiegazioni calme e ben motivate sembrano discorsetti folli imparati a memoria. Mi ricordo una vecchia freddura politica, che diceva: “Perché pensi sempre male di tutti? Perché così risparmio tempo”.
Dov’è finito il giornalismo onesto, concreto e imparziale? Ormai è difficile anche definirlo, perché è tutto troppo ingarbugliato: i confini tra fatto e finzione, tra verità e bugie, diventano ogni giorno più tortuosi.
Una democrazia non può sopravvivere a lungo senza una stampa libera che aiuti i cittadini a distinguere tra realtà e finzione, e che sappia trarre le logiche conseguenze dagli eventi.
Ma la società attuale fa enormi pressioni sulla stampa, soprattutto su quella che si occupa di politica, perché agisca in direzione opposta, ovvero – per dirla con un arguto editorialista – la spinge verso la “abnormalizzazione” di qualsiasi politico, compresi i più abili e onesti, spesso per questioni di scarsa importanza.
Gli esperti la chiamano “falsa equivalenza”.
Significa che, quando scopri una trave nell’occhio di un politico o di un partito, per schivare l’accusa di parzialità sei costretto a scovare una pagliuzza nell’occhio dell’avversario e a trasformarla in una trave. Queste pagliuzze gonfiate producono grandi benefici: copertura mediatica ai telegiornali della sera e nei siti di news, milioni di retweet e altra benzina per i talk show. Quando travi e pagliuzze hanno lo stesso peso, le campagne elettorali e i governi dedicano sempre meno tempo ed energie ai reali bisogni della gente. E se qualcuno ogni tanto ci prova, la quotidiana tempesta di fango di solito impiega poco a sommergerlo.
Tutto questo ha un prezzo. Così si generano ulteriormente frustrazione, polarizzazione, paralisi, scelte sbagliate e mancate opportunità. Senza un incentivo a compiere atti concreti, i politici si lasciano sempre più trasportare dalla corrente: invece di prodigarsi a spegnere l’incendio, alimentano le fiamme della rabbia e dell’odio. Sappiamo tutti che questo tipo di condotta è dannosa, ma nell’immediato la ricompensa è talmente alta che continuiamo a compiere gli stessi errori sperando che la Costituzione, le istituzioni e le leggi bastino da sole a scongiurare danni permanenti alle nostre libertà e al nostro stile di vita.
Chiunque si dovrebbe candidare per invertire questo circolo vizioso, e sperare di farcela. Spesso, però, si deve difendere dai lupi che lo assediano.
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