Dopo settimane di silenzio – la presentazione di Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca in giro per la mia regione è davvero, ma davvero una meravigliosa esperienza – rieccomi a scrivere di politica americana con l’approvazione, alla Camera, della nuova legge finanziaria voluta da Trump e chiamata, come avrete sicuramente intuito, come il titolo di questo articolo. L’iter per l’approvazione definitiva passa ora al Senato da cui ci si aspetta battaglia a colpi di emendamenti. Ecco cosa è successo e soprattutto cosa succederà.
Per anni la politica americana ha vissuto come se il conto non dovesse mai arrivare. Un debito pubblico sempre più ingombrante è stato ignorato o minimizzato, come se la sua crescita non avesse implicazioni concrete. Gli avvertimenti non sono mancati: già nel 1987, Alan Greenspan – allora alla guida della Federal Reserve – segnalava che «gli effetti del deficit sarebbero diventati sempre più evidenti, e con una certa urgenza». All’epoca il rapporto debito/PIL era meno della metà rispetto a quello attuale. Eppure, il sistema ha continuato a girare come se nulla fosse. Fino a oggi.
La discussione al Congresso sulla nuova legge finanziaria rappresenta un punto di svolta. Donald Trump ha scelto un nome a dir poco grottesco, One Big Beautiful Bill Act, per un provvedimento che estende i tagli fiscali del 2017 – in scadenza a fine anno – e al tempo stesso aumenta la spesa militare e per il controllo delle frontiere. I fondi necessari verrebbero in parte recuperati riducendo l’impatto di Medicaid, del programma di assistenza alimentare, degli investimenti nell’istruzione e nei sussidi per l’energia pulita. In un documento del Washington Post compare un prospetto dettagliato con le voci di spesa e i tagli previsti, che rende bene l’idea della redistribuzione in corso.
La linea più dura del Partito Repubblicano chiede ulteriori riduzioni, ma la base parlamentare è divisa. Alcuni temono il contraccolpo elettorale nei propri collegi, soprattutto in vista delle elezioni di metà mandato. Tuttavia, l’impressione è che il presidente riuscirà a ottenere il via libera anche da parte dei più riluttanti. E le conseguenze non si faranno attendere.
Secondo i calcoli del centro studi indipendente Committee for a Responsible Federal Budget, la finanziaria produrrebbe un aumento del debito federale pari ad almeno 3.300 miliardi di dollari entro il 2034. Il rapporto debito/PIL, già oggi attorno al 100 per cento, raggiungerebbe il 125 per cento: un record storico. Intanto, il disavanzo annuo salirebbe dal 6,4 al 6,9 per cento del PIL, ampliando ulteriormente lo squilibrio strutturale.
Fino a poco tempo fa, cifre del genere non avrebbero provocato troppe preoccupazioni. La solidità del dollaro e la costante domanda globale di titoli del Tesoro avevano garantito agli Stati Uniti un margine di manovra praticamente illimitato. Questo vantaggio ha alimentato la convinzione, bipartisan, che fosse possibile continuare a spendere senza preoccuparsi delle conseguenze. Oggi, però, quel margine si sta restringendo. E per la prima volta da decenni, il sistema sembra costretto a fare i conti con la realtà.
Quel meccanismo ha retto fino a quando il resto del mondo ha continuato a credere nell’affidabilità del sistema americano. Il punto di rottura è arrivato con la politica commerciale di Donald Trump, che ha imposto – e solo in parte ritirato – dazi generalizzati contro quasi tutti i partner economici degli Stati Uniti, generando una spirale di instabilità. L’impatto non si è limitato ai flussi commerciali: a essere minata è stata la fiducia degli investitori nella tenuta a lungo termine del dollaro come valuta di riferimento globale. È stato il primo passo di un circolo vizioso che ha trovato nuovo slancio proprio in questi giorni.
Le indiscrezioni sul contenuto della legge finanziaria in discussione al Congresso hanno contribuito ad aggravare i timori. Ma il colpo decisivo è arrivato dalla decisione di Moody’s di revocare ai titoli di Stato americani la storica tripla A. Una scelta simbolica quanto sostanziale: i creditori internazionali ora si aspettano rendimenti più alti per acquistare debito federale, alzando il costo del finanziamento per il Tesoro.
La ricaduta è duplice. Da un lato, lo Stato sarà costretto a pagare interessi più elevati per rifinanziare il debito esistente, comprimendo le risorse disponibili per altre spese pubbliche. Dall’altro, si faranno sentire gli effetti a catena sull’economia reale: il credito alle famiglie e alle imprese diventerà più caro, rallentando consumi, investimenti e occupazione. E nel frattempo la liquidità pubblica – già sotto pressione – si assottiglierà ulteriormente, complicando qualsiasi manovra correttiva.
Il consenso tra gli economisti è chiaro: gli Stati Uniti devono intervenire rapidamente per riportare il debito federale su una traiettoria sostenibile. Le opzioni sul tavolo non mancano, e spaziano dalla riforma della previdenza sociale all’introduzione di nuove imposte, almeno sui redditi più alti. Ma il quadro politico non lascia spazio all’ottimismo.
A Washington manca il coraggio di affrontare il problema per quello che è. Come osservato da Rebecca Patterson in un’analisi pubblicata sul New York Times, i leader politici preferiscono mascherare l’urgenza con giochi contabili. Nel caso dei repubblicani, un esempio eloquente riguarda proprio i tagli fiscali: per abbassarne il costo stimato, si prevede che restino in vigore solo per quattro anni, anziché i consueti dieci di una legge finanziaria. È un artificio temporaneo, che facilita l’approvazione della legge ma scarica la responsabilità sul presidente che verrà. Se quei tagli saranno prorogati, il deficit aumenterà in modo strutturale; se invece scadranno, chi sarà alla Casa Bianca dovrà assumersi l’onere politico di “alzare le tasse”.
L’inadeguatezza della classe dirigente riflette, in ultima analisi, l’immaturità fiscale di una società cresciuta nel mito del consumo illimitato, sostenuto da decenni di credito facile e spesa pubblica espansiva. L’opinione pubblica percepisce il problema, ma in modo vago e contraddittorio. Secondo un sondaggio della Hoover Institution, tre americani su quattro affermano di essere preoccupati per l’aumento del debito. Ma solo una minoranza ha un’idea precisa di cosa alimenti quel debito: il 17 per cento sa che la previdenza sociale è la voce più pesante del bilancio federale, e appena il 27 per cento collega l’estensione dei tagli fiscali del 2017 a un possibile aumento del deficit.
In un contesto simile, il rischio più concreto non è tanto quello di un default tecnico, quanto l’inerzia sistemica. Un meccanismo che continua a muoversi per abitudine, senza direzione, mentre intorno tutto cambia. E mentre il mondo si interroga sulla solidità del sistema americano, la politica statunitense continua a illudersi che basterà stampare altri miliardi per mantenere in piedi l’illusione. E questa finanziaria ne è la prova.

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