Leader si diventa a furor di popolo, con un’elezione o magari perché si riesce a trascinare le masse alla rivoluzione. Il leader può anche essere cooptato, ma poi cammina con le proprie gambe. A sinistra di leader ce ne sono stati parecchi negli ultimi decenni: Prodi, D’Alema, Veltroni, Bersani e Renzi, per citarne alcuni – anche se fondamentalmente perdenti o, come nel caso dell’attuale segretario Pd, non ancora messi alla prova delle urne. A destra, invece, ne ricordo solo uno.
Gianfranco Fini, ad esempio, capo non lo è mai stato perché la leadership non è mai riuscita a conquistarla sul campo. Ci è arrivato vicino, certo; molto vicino, spesse volte. Ma non ha mai avuto il flauto magico, per così dire. Fini, universalmente riconosciuto più moderato di Berlusconi e Bossi, ha avuto la fortuna, per così dire, di stare simpatico all’ultimo vero leader della destra italiana, Giorgio Almirante, che nel 1977 lo volle segretario del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile missina. Non aveva vinto il congresso, ma l’allora segretario del Movimento Sociale aveva deciso così e così fu. Una leadership acquisita ma non conquistata: Fini è sempre stato scelto dal leader ma non lo è mai diventato sul serio.
Negli anni a venire il ritornello non è mai cambiato. Fini ha imparato a costruirsi un’apparenza da leader, ha conquistato la fiducia e la stima degli altri leader senza mai diventarlo sul campo perché sostanzialmente non ha mai avuto una leadership. È stato, e per certi versi lo è ancora, un politico serio, spesso affidabile, e ancora più spesso pragmatico. Tutti attributi non pertinenti al leader ma al politico capace. Ecco ciò che è Gianfranco Fini: un politico capace, ma nulla di più.
E non che non ci abbia provato a diventare un leader. Come quando nel 1995 tenne quel gran discorso a Fiuggi per sancire la fine del MSI e la nascita di Alleanza Nazionale. Oppure quell’altro, nel 2010, a Mirabello, dopo lo strappo con Berlusconi. E anche la sinistra, negli anni, ha sempre visto in Fini l’alternativa presentabile alla destra berlusconiana. La sinistra ha sempre scommesso sul delfino di Almirante, anche se poi, nella pratica, quella scommessa si è sempre dimostrata perdente. Perdente come la sinistra degli ultimi due decenni, perdente esattamente come Fini senza Berlusconi.
Ed è questa la seconda peculiarità di Gianfranco Fini – che discende inevitabilmente dalla prima, l’assenza di leadership -: l’incapacità di tener dritta la barra. Come quando nel 1999 promosse, assieme a Mariotto Segni, il primo vero tentativo di emanciparsi dal Cavaliere con l’Elefantino, “un grande partito liberale di centrodestra”. Quel primo tentativo portò a casa un misero 10 per cento alle europee contro il 15,7 di AN alle politiche. Fini si dimise, chiuse il ciclo del grande partito liberale e poco dopo siglò un patto con Berlusconi che gli fruttò, due anni dopo, la vicepresidenza del Consiglio. Oppure quando ruppe definitivamente col Cavaliere facendo nascere Futuro e Libertà, gruppo che allora, nel 2010, contava 34 deputati e 10 senatori e si proponeva di essere la vera alternativa a Berlusconi. La storia, però, si ripete inesorabilmente: la mozione di sfiducia presentata da Fli alla fine di quell’anno non riescì a far cadere il governo. Anche questo ennesimo, nuovo, progetto finiano cadde nell’oblio. L’anno dopo ci ritenta aderendo all’avventura centrista di Monti, avventura che si concluse con lo 0.4% alle politiche di febbraio 2012.
Lo spietato resoconto di un leader che non lo fu mai e che mai lo diventerà.
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