Durante il primo mandato di Trump, l'amministrazione era caratterizzata da tre gruppi distinti ma solo uno era formato dai suoi seguaci. Oggi questa dinamica si è intensificata. Le ultime nomine rivelano un cambiamento radicale, la lealtà personale e ideologica prevalgono e l’unico requisito fondamentale è appartenere alla nuova setta.
Durante il primo mandato di Donald Trump, la sua amministrazione si muoveva su tre livelli distinti, ognuno rappresentato da persone con motivazioni, esperienze e obiettivi profondamente diversi. Era una struttura instabile, tenuta insieme più dall’autorità di Trump che da una visione coerente o da un programma ben definito.
Il professionismo
Questo gruppo includeva politici e funzionari con solide carriere alle spalle, abituati alle dinamiche di un’amministrazione repubblicana classica. Erano spesso visti come “moderatori”, il loro compito non dichiarato era tenere sotto controllo le uscite più impulsive di Trump, cercando di preservare un minimo di coerenza istituzionale. Gary Cohn, ex consigliere economico, ne è un esempio lampante. Cohn non si limitava a dare consigli, ma agiva concretamente per evitare danni: il giornalista Bob Woodward ha raccontato di quando sottrasse fisicamente un documento dallo Studio Ovale per impedire a Trump di firmare la fine di un cruciale accordo commerciale con la Corea del Sud. La sua presenza rappresentava il tentativo, spesso frustrato, di bilanciare l’instabilità del presidente con pragmatismo e metodo.
I tecnocrati
In questo gruppo c’erano funzionari di alto profilo, spesso con un passato militare o diplomatico, che cercavano di utilizzare la presidenza Trump per portare avanti una visione strategica, in particolare in politica estera e sicurezza nazionale. Tra loro spiccava H.R. McMaster, generale e consigliere per la sicurezza nazionale dal 2017 al 2018. McMaster rappresentava una figura di alto livello, con l’intenzione di dare un indirizzo più strutturato e professionale all’amministrazione. Tuttavia, lui e altri come lui si scontrarono presto con la realtà: Trump era refrattario a qualsiasi forma di disciplina o coerenza. Frustrati dall’impossibilità di domare i suoi istinti e le sue contraddizioni, la maggior parte di questi funzionari lasciò l’incarico dopo pochi mesi.
I devoti del MAGA
Il gruppo più ristretto, ma anche il più influente sul lungo periodo, era composto dai “veri credenti”, quelli scelti esclusivamente per la loro devozione personale a Trump. Queste figure non avevano l’obiettivo di guidare o moderare il presidente, ma di assecondarlo in ogni sua decisione, senza porsi domande sulle conseguenze. Questo atteggiamento li portò a vedere i due gruppi precedenti come traditori, convinti che avessero annacquato il messaggio trumpiano. Alla fine del mandato, questo gruppo lasciò la Casa Bianca con un senso di rivalsa e con l’idea che una futura amministrazione Trump sarebbe stata diversa, più pura e fedele ai suoi principi. Trump è dello stesso avviso.
La setta
Oggi, con Trump al lavoro per la nuova presidenza, questa dinamica si è estremizzata. Le recenti nomine e candidature dimostrano come la lealtà personale e ideologica sia diventata il requisito fondamentale. Non conta più l’esperienza o la competenza, ma l’affidabilità nel sostenere il presidente e le sue visioni più controverse.
Un esempio emblematico è Pete Hegseth, proposto come segretario alla Difesa. Hegseth è un ex ufficiale della Guardia Nazionale e volto noto di Fox News, scelto non per le sue competenze (limitate) in materia di sicurezza nazionale, ma per la sua capacità di rappresentare lo spirito trumpiano. La sua retorica è aggressiva e apertamente schierata: critica i “generali woke”, chiede clemenza per soldati accusati di crimini di guerra e si oppone a qualsiasi politica di diversità e inclusione nell’esercito, inoltre il Post scrive che sarebbe sotto inchiesta per molestie sessuali. Insomma, le sue credenziali sono così deboli che persino alcuni alleati di Trump iniziano a dubitare della sua conferma al Senato.
Altrettanto controversa è la scelta di Tulsi Gabbard come possibile direttrice dell’intelligence nazionale. Gabbard, ex democratica convertita al trumpismo, è nota per le sue posizioni discutibili in politica estera, come l’incontro con Bashar al-Assad e la diffusione di narrazioni pro-Cremlino sulla guerra in Ucraina. In qualsiasi amministrazione tradizionale, il suo profilo sarebbe stato inconcepibile per un ruolo così delicato. Eppure, nel mondo di Trump, è proprio questa capacità di sfidare le convenzioni che la rende perfetta per il ruolo.
Tra tutte le scelte, quella di Matt Gaetz è forse la più controversa. Deputato repubblicano della Florida, Gaetz non solo porta con sé un passato macchiato da scandali – accuse di molestie sessuali e uso di droghe, mai formalmente perseguiti – ma incarna perfettamente l’archetipo dell’uomo che Trump desidera al comando del dipartimento di giustizia: fedele e disposto a tutto. La sua carriera politica si è distinta per azioni di rottura, come la guida della ribellione che costò il posto a Kevin McCarthy, reo di aver negoziato con i Democratici. Gaetz, a differenza di predecessori come Jeff Sessions e William Barr, non si farà problemi a seguire alla lettera le richieste di Trump, compresa l’apertura di indagini contro gli avversari politici o la punizione di chi ha indagato sul presidente in passato.
Marco Rubio rappresenta un esempio di come il Partito Repubblicano sia stato trasformato dal trumpismo. Da sostenitore di riforme migratorie inclusive a fervente difensore delle politiche anti-immigrati di Trump, Rubio è un altro ex avversario delle primarie del 2016 che ha trovato la sua strada verso la corte del presidente. La sua nomina a segretario di Stato riflette una politica estera che si concentra su nemici definiti (Cina, Iran, Cuba), sull’appoggio incondizionato a Israele e su una linea meno interventista rispetto al passato. Rubio non è tanto una scelta radicale quanto una figura che Trump può controllare, utile per portare avanti la sua visione senza troppe resistenze.
La nomina di Kristi Noem a segretaria per la sicurezza nazionale appare più come una provocazione che una scelta basata sulle competenze. Governatrice del South Dakota, Noem è nota per atteggiamenti populisti e dichiarazioni fuori dalle righe, ma non ha alcuna esperienza concreta su temi legati alla sicurezza o alla gestione dell’immigrazione. Sarà comunque lei a guidare l’ambizioso piano di espulsione di milioni di immigrati senza documenti, un pilastro della retorica trumpiana, nonostante il rischio evidente che la sua inesperienza si traduca in errori più o meno devastanti.
Robert Kennedy Jr., antivaccinista di lungo corso, è forse la nomina più grottesca. La sua storia personale e politica – dalle teorie complottiste sui vaccini all’opposizione alle regole sanitarie durante la pandemia – lo rende una figura incredibilmente ridicola. La sua gestione del dipartimento della salute, uno dei più cruciali e ricchi del governo federale, potrebbe portare a un conflitto aperto con la comunità scientifica e le istituzioni sanitarie, che Trump evidentemente vede come un ostacolo. Nominarlo non è solo un gesto di sfida verso il mainstream scientifico, ma anche un modo per consolidare il sostegno di quella parte dell’elettorato che condivide le sue idee cospirazioniste.
Il fanatismo al potere
Queste scelte non sono casuali. Trump sta progettando una squadra che non solo eseguirà i suoi ordini, ma lo farà con un entusiasmo che rasenta il fanatismo. Non si tratta solo di scegliere persone fedeli, ma di costruire un’amministrazione modellata a immagine e somiglianza del presidente, in cui la lealtà prevale sulla competenza e la volontà di seguire il leader supera ogni altra considerazione. La guerra al “deep state” non è una metafora: Trump vuole smantellare l’apparato burocratico che, secondo lui, ha ostacolato la sua prima amministrazione. Funzionari come Gaetz, Gabbard o Hegseth non si faranno scrupoli a colpire dall’interno i dipartimenti chiave, licenziando o isolando chiunque si opponga. È un approccio che promette efficienza nel perseguire la visione trumpiana, ma che aumenta il rischio di derive autoritarie e conflitti con le istituzioni consolidate.
Anche la decisione di affidare a Elon Musk e Vivek Ramaswamy il progetto per “ridimensionare” il governo federale è un atto simbolicamente potente, che preannuncia una fase di deregulation estrema e di indebolimento strutturale delle istituzioni pubbliche.
Queste nomine, infine, non solo indicano chi guiderà i principali dipartimenti, ma delineano anche il tipo di presidente che Trump vuole essere: un leader che non governa, ma combatte. Il messaggio è chiaro: Trump non cerca compromessi, ma fedeltà assoluta e un team disposto a trasformare il governo in un’arma contro i suoi avversari, interni ed esterni.
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