Trump ferma la guerra tra Iran e Israele con un cessate il fuoco via social. Il conflitto si congela, ma resta aperto. La pace, stavolta, è una decisione unilaterale.

Anche tra nemici dichiarati, la guerra può seguire un copione. Non scritto, certo, ma riconoscibile nei gesti, nei tempi e nei messaggi che attraversano il campo di battaglia. È una forma di comunicazione strategica, più che un’escalation militare. È quello che si è visto quando l’Iran, prima di lanciare i suoi missili, ha avvisato il Qatar. E quindi, indirettamente, anche gli Stati Uniti.

Nel mirino c’era la base di Al Udeid, a pochi chilometri da Doha, uno dei punti più protetti e nevralgici della presenza americana in Medio Oriente. L’avvertimento non serviva a evitare danni – con quel tipo di bersaglio non sarebbe stato possibile infliggerne di seri – ma a trasmettere un messaggio politico: Teheran non cercava una guerra con Washington. Doveva solo rispondere, in qualche modo, al raid aereo che aveva colpito i suoi impianti nucleari: un’azione che l’Iran ha vissuto come un’umiliazione, ma che non può permettersi di vendicare in modo diretto.

La leadership iraniana ha scelto di salvare la faccia senza scatenare un conflitto che non può vincere. Ha incassato il colpo, ha risposto in modo simbolico, e poi ha fatto un passo indietro. L’obiettivo, evidentemente, era sopravvivere alla crisi, non vincerla.

Trump ha colto il segnale e ha deciso di chiudere il capitolo. In un’inversione repentina che ha sorpreso sia il suo staff sia Israele, ha dichiarato finita la guerra. Dodici giorni, nessuna vittima americana, nessun coinvolgimento diretto. E una conclusione utile, soprattutto sul piano interno.

Due giorni prima, il presidente statunitense aveva invocato pubblicamente un cambio di regime a Teheran. Poi, quasi senza soluzione di continuità, ha annunciato un cessate il fuoco tra Iran e Israele, descrivendolo con toni trionfali sui social: «Sono venuti da me, quasi contemporaneamente, e mi hanno detto: pace», ha scritto su Truth, ringraziando i “grandi piloti di B-2” per aver contribuito con un “colpo perfetto” al risultato. Ha parlato di una tregua di dodici ore, ribattezzando il conflitto “la guerra dei dodici giorni”, e chiudendo con una benedizione seriale che abbraccia Israele, Iran, gli Stati Uniti e l’intero pianeta.

Ma la tregua ha retto poco. Mentre fioccavano i messaggi celebrativi, da Teheran sono ripartite le esplosioni e alcuni razzi hanno colpito aree israeliane ben dopo l’entrata in vigore della sospensione delle ostilità. Trump ha reagito con post rabbiosi, alternando slogan bellicosi e improperi lanciati dal prato sud della Casa Bianca. La sua reputazione da mediatore, improvvisamente esibita, si è incrinata nel giro di poche ore.

Il presidente ha corso un rischio evidente, inserendo gli Stati Uniti in una crisi che poteva trascinarli verso l’ennesima guerra in Medio Oriente. Ma ha puntato tutto su una scommessa: che l’attacco ai siti nucleari iraniani avrebbe congelato la situazione. Se il cessate il fuoco dovesse tenere, l’azzardo potrebbe trasformarsi in una vittoria diplomatica. È lo stesso schema già sperimentato nel gennaio 2020, quando Trump – allora al suo primo mandato – aveva ordinato l’eliminazione del generale Qasem Soleimani. Anche allora Teheran rispose con attacchi contenuti e, anche allora, la Casa Bianca scelse di non proseguire. La crisi si chiuse così com’era iniziata: senza una guerra dichiarata.

Oggi Trump torna a giocare quel copione, ma con più esposizione. Ha affidato i contatti diplomatici al Qatar, tornato a svolgere il ruolo di ponte tra Washington e Teheran. Ha sentito Netanyahu per fissare i termini dell’intesa. Ha ricevuto lodi bipartisan: da Nikki Haley e John Bolton, soddisfatti per l’azione militare, fino ai parlamentari Maga, inizialmente allarmati da una possibile escalation e poi rincuorati dallo stop. “Grazie, presidente Trump, per aver perseguito la pace!” ha scritto Marjorie Taylor Greene su X.

È il nuovo stile negoziale dell’America trumpiana: accordi annunciati via social, senza firme, senza documenti, senza date. Come nel recente cessate il fuoco tra India e Pakistan, anche questa intesa è priva di dettagli ufficiali. Nessuno conosce i termini reali dell’accordo, salvo le parti coinvolte. Il contenuto dei colloqui tra Gerusalemme, Doha e Washington resta segreto. E le domande aperte si moltiplicano.

Quali garanzie ha dato Trump a Israele? L’Iran ha promesso qualcosa sul proprio programma nucleare? Che fine hanno fatto le scorte di uranio arricchito? La Casa Bianca ha parlato di una tregua “per sempre”, ma i razzi lanciati a cavallo della tregua e la reazione infastidita del presidente raccontano una realtà molto più instabile. In assenza di fatti verificabili, la narrativa social del presidente si regge sulla sola fiducia. O sull’effetto scenico.

Trump aveva bisogno di presentare l’attacco del 22 giugno come un’azione isolata, non come l’inizio di un conflitto. Parte del suo elettorato non ha gradito l’uso della forza, e lui non poteva permettersi di perdere consenso. Solo la presenza di vittime americane avrebbe potuto giustificare un’escalation. E così, anche stavolta, ha fatto un passo indietro prima che il fuoco diventasse incendio.

Ma il prezzo lo paga Israele, che puntava a un’operazione più lunga e mirata. Netanyahu aveva intensificato i raid, allargando gli obiettivi. Il vero traguardo, in fondo, restava lo stesso di sempre: indebolire il programma nucleare iraniano o far crollare il regime. Invece, Trump ha chiuso la finestra strategica troppo presto. Tel Aviv dovrà accontentarsi di aver rallentato l’Iran, ma non di averlo fermato.

Non è una tregua condivisa. È una decisione unilaterale. È Trump a fissare il ritmo, le pause, la conclusione. Una gestione personalizzata del conflitto, che sfugge alle logiche multilaterali e ridisegna gli equilibri con colpi di scena e tweet all’alba. E che, almeno per ora, ha evitato una guerra più grande. Non perché le condizioni lo permettessero, ma perché il presidente ha deciso così.