Putin ha trasformato la guerra in Ucraina in un confronto globale tra la Russia e l’Occidente, opposte non solo su interessi territoriali ma su visioni del mondo inconciliabili. L’equilibrio del terrore nucleare, garantito in passato dal senso del limite, è svanito, e l’atomica da tabù assoluto è diventata una minaccia quotidiana. Questo cambio di paradigma rende il conflitto ancora più pericoloso, avvicinando l’impensabile: un’esplosione non lascerebbe né vincitori né vinti, solo il silenzio della fine.
Il “nuovo ordine mondiale” immaginato da Vladimir Putin, oggi, nel pieno dell’escalation militare tra Russia e Ucraina, suona meno retorico di quanto si vorrebbe. Con il conflitto ormai dipinto dallo stesso Putin come una “guerra globale” per colpa degli Stati Uniti, la sensazione è che si sia superata un’altra linea rossa. Non è solo una questione di missili e territori: il Cremlino sembra voler trascinare l’intero Occidente dentro al perimetro della guerra, non più come sostenitore esterno, ma come protagonista ideologico e militare dello scontro.
Il ragionamento di Putin è chiaro, almeno dal suo punto di vista. Se l’Ucraina è un semplice cavallo di Troia nelle mani delle potenze occidentali, allora non c’è più motivo di separare la guerra contro Kiev da quella contro chi la sostiene. Da mesi, il racconto del Cremlino punta a dipingere gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’intero “Occidente globale” come il vero nemico, colpevole di voler impedire il ritorno della Russia a una sua grandezza imperiale. Non è una guerra locale, dice Putin: è uno scontro di visioni del mondo, due strategie che aspirano a ridefinire gli equilibri globali.
Una strada per la tregua
Da un lato c’è l’Occidente, che nella narrazione russa punta a smantellare la Russia e a bloccare un nuovo assetto mondiale centrato sull’Eurasia, sulla Cina e sul mondo islamico, per costruire un’alternativa all’egemonia euro-americana. Dall’altro c’è la Russia, che si vede come ultima baluardo di una missione storica e universale, la difesa contro il nichilismo delle società liberali, ormai svuotate di tradizioni e destinate alla decadenza. È uno scontro di proporzioni quasi apocalittiche: non solo geopolitico, ma culturale e ideologico.
Ma qui emerge il paradosso. Forse, sul Donbass e sulla Crimea un compromesso sarebbe ancora tecnicamente possibile. Magari si potrebbe negoziare una tregua per fermare la carneficina che ha causato più di un milione di vittime. Ma come si possono conciliare due visioni del mondo così radicalmente opposte? Su che basi si può costruire una pace tra chi vede l’altro non solo come un avversario, ma come un’intera civiltà da fermare?
Il problema non è solo politico: è strutturale. I meccanismi di equilibrio e controllo costruiti nel dopoguerra – istituzioni, trattati, regole internazionali – sembrano ormai incapaci di contenere uno scontro di questa portata. Per decenni, il senso del limite è stato il fondamento della convivenza tra le potenze: la consapevolezza che oltre una certa soglia si rischiava la distruzione totale. Questo equilibrio, imperfetto ma funzionale, ha retto durante la Guerra Fredda grazie alla paura reciproca e alla volontà di autolimitarsi.
La minaccia estrema
Oggi, però, quel senso del limite sembra svanito. La politica non è più in grado di generare regole condivise, e il risultato è che tutto appare possibile, anche l’impensabile. Ogni potere risponde solo a se stesso, e l’idea di sovranità è diventata assoluta, priva di bilanciamenti e responsabilità. In questo contesto, l’arma nucleare non è più solo una minaccia estrema, ma un elemento costante del discorso pubblico. Non è più l’ultima opzione, l’interdetto assoluto: è una presenza abituale, quasi normalizzata.
Putin, evocandola continuamente, sembra non accorgersi che così facendo banalizza l’atomica. La trasforma da strumento di distruzione definitiva a uno strumento tattico, riducendone il potere simbolico di “arma fine di mondo”. Ma questo processo, oltre a banalizzarla, la rende anche più pericolosa. Perché quando tutto è praticabile, anche l’inimmaginabile diventa una possibilità concreta.
E così ci troviamo in una situazione in cui il tasto fatale, probabilmente, nessuno vuole premerlo davvero. Ma è come se la sicura fosse stata rimossa: l’idea stessa del suo utilizzo è diventata una parte integrata del conflitto. La bomba nucleare è ormai un concetto quotidiano, una costante nei ragionamenti strategici, un elemento di pressione politica.
L’era in cui l’atomica era un tabù morale e culturale sembra lontana. La deterrenza, che per decenni aveva paralizzato il mondo sull’orlo dell’abisso, si basava su un equilibrio fatto di paure reciproche e limiti condivisi. Oggi, quei limiti non ci sono più. E senza limiti, tutto è possibile, anche il niente che resta dopo l’atomica: un vero anno zero. Perché, dopo l’esplosione, non ci sono né vincitori né vinti, solo il silenzio della fine.
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