La politica americana non è più definita dalla tradizionale contrapposizione tra destra e sinistra, ma da una frattura più profonda tra chi mantiene fiducia nel sistema e chi lo considera compromesso. Questa divisione, basata più sulle percezioni che sui fatti concreti, ha polarizzato il Paese, creando due Americhe che stentano a riconoscersi reciprocamente.
La vera faglia che attraversa la politica americana degli ultimi anni non corre più lungo le classiche linee ideologiche di destra e sinistra, né si esaurisce nello scontro tra liberali e conservatori. La spaccatura più profonda è tra chi crede ancora nel sistema e chi, invece, lo vede come irrimediabilmente compromesso. Questa divisione, che si radica più nella percezione che nei fatti oggettivi, plasma il panorama politico statunitense, creando due Americhe che faticano a riconoscersi a vicenda.
La sfiducia nelle istituzioni è diventata il vero punto di rottura: il Governo federale, i mercati finanziari, il mondo accademico e i media tradizionali sono visti da ampie fasce della popolazione non più come pilastri della democrazia, ma come strumenti corrotti al servizio di élite distaccate dalla realtà quotidiana. Questo clima di sospetto non è un fenomeno del tutto nuovo, ma ha raggiunto un livello di polarizzazione senza precedenti.
La prima amministrazione Trump aveva già ridefinito le identità politiche, trasformando il dibattito pubblico in una sorta di referendum sul sistema stesso. Con lo slogan “Make America Great Again”, Trump non si limitava a proporre un programma politico, ma lanciava un’accusa implicita: l’America, così com’era, non era più grande né giusta. I Democratici, di riflesso, si trovarono costretti a difendere l’esistente, a sostenere che l’America fosse già grande. Dopo otto anni di presidenza Obama, rinnegare i risultati ottenuti sarebbe sembrato un’ammissione di fallimento, una posizione politicamente insostenibile.
Con l’elezione di Joe Biden, questa dicotomia si è cristallizzata. Per una fetta consistente della popolazione – soprattutto i professionisti progressisti con istruzione universitaria e i ceti più abbienti – il sistema continuava a funzionare. Ma per altri milioni di cittadini americani, l’esperienza quotidiana raccontava una realtà molto diversa. In meno di un decennio, le alleanze di classe si erano invertite: se per sessant’anni il 5% più ricco della popolazione bianca era stato il segmento più incline a votare repubblicano, dal 2020 questa tendenza si era quasi del tutto ribaltata. I ceti più benestanti cominciavano a preferire il Partito Democratico, mentre la rabbia e la frustrazione di molte comunità operaie si spostavano verso il trumpismo.
Sistema partitico
Questo cambiamento ha ridefinito l’identità dei partiti. I Democratici, un tempo portabandiera delle istanze della classe operaia, sono stati percepiti come il partito dello status quo, delle istituzioni e dei privilegi consolidati. In una società come quella americana, che celebra il movimento, l’innovazione e la sfida all’autorità, essere etichettati come custodi dello status quo è una condanna politica. Nel frattempo, i Repubblicani sono riusciti a reinventarsi come forza anti-sistema, eredi paradossali della ribellione contro un establishment che molti americani ritenevano distante e inetto.
La tensione tra istituzioni e sentimenti popolari è esplosa in pieno durante la campagna per le presidenziali del 2024. Mentre i Democratici si sforzavano di rassicurare l’opinione pubblica mostrando dati positivi sull’economia e sottolineando i risultati ottenuti, l’America profonda continuava a percepire un senso diffuso di precarietà. Non bastavano i grafici che mostravano una crescita costante o l’elogio di un’economia “quasi perfetta” come suggerito da Paul Krugman: per milioni di famiglie, l’inflazione rimaneva una minaccia reale e tangibile, riscontrabile quotidianamente nei supermercati e nei bilanci familiari.
Questo scollamento tra le narrazioni ufficiali e la realtà percepita ha alimentato la sfiducia. Gli elettori non si limitavano a contestare le politiche economiche: mettevano in discussione la legittimità stessa delle istituzioni che, a loro avviso, ignoravano o sminuivano le loro difficoltà. Non sorprende, quindi, che in cinque degli stati chiave, quasi il 70% degli intervistati abbia dichiarato di desiderare “cambiamenti radicali” o addirittura “l’abbattimento completo del sistema”. E se solo il 24% riteneva che Biden potesse portare avanti tali cambiamenti, il 70% era convinto che Trump lo avrebbe fatto.
Ma ridurre tutto all’economia sarebbe un errore. Quando gli americani parlano di “sistema”, si riferiscono a un insieme di dinamiche culturali, sociali e istituzionali che percepiscono come oppressivo o distante. È un sentimento viscerale, una sensazione che le cose non vadano come dovrebbero, anche se non sempre riescono a tradurre questo disagio in parole. È una questione di fiducia tradita, di aspettative deluse e di un senso crescente di alienazione.
La politica americana è così entrata in una fase di paradossi. I Democratici, storicamente partito del cambiamento sociale, si sono trovati a difendere lo status quo, mentre i Repubblicani hanno abbracciato la retorica della distruzione e del caos come strumenti di rinnovamento. In questo scenario, il trumpismo si è presentato non come un progetto politico coerente, ma come un contenitore capace di aggregare le più disparate forme di malcontento. Dall’elitismo libertario di figure come Elon Musk al populismo radicale di consiglieri come Steve Bannon, la coalizione che si è stretta attorno a Trump condivide un’unica certezza: il sistema è il nemico.
L’icona del sistema
Il fatto che un miliardario come Trump sia diventato l’icona del sentimento anti-sistema potrebbe apparire come un paradosso, ma svela invece la natura del conflitto in corso. Non è una questione di ricchezza materiale, ma di posizione rispetto alle istituzioni. Chi beneficia della stabilità – burocrati di carriera, accademici, professionisti protetti da reti e regolamenti – tende a difendere il sistema. Chi ne è escluso o si sente emarginato vede nella sua distruzione l’unica possibilità di riscatto.
Questo conflitto si riflette anche nella dimensione emotiva della politica americana. Gli elettori non votano più solo sulla base di programmi o ideologie, ma spinti da sensazioni profonde: rabbia, frustrazione, speranza o disperazione. Le percezioni, più dei fatti, guidano il voto. È il motivo per cui gli appelli razionali sui buoni indicatori economici spesso falliscono: la realtà vissuta dagli elettori conta più delle statistiche.
Questa dinamica spiega l’ascesa di una politica tribale, dove la scelta non è più tra diverse visioni del futuro, ma tra appartenenze emotive a “squadre” rivali. È il meme dell’autobus che circola sui social: due passeggeri guardano fuori dal finestrino. Uno vede il collasso del sistema e si dispera; l’altro guarda l’orizzonte soleggiato e sorride, affascinato dal crollo imminente. Ma c’è anche chi, seduto nel corridoio, non riesce a schierarsi. È cosciente dei fallimenti del sistema ma teme le conseguenze della sua distruzione.
Questa è forse la posizione più scomoda, ma anche la più lucida. Riconoscere che il sistema ha funzionato per alcuni e ha fallito per altri richiede una maturità politica rara. Eppure, è proprio questa consapevolezza che potrebbe offrire una via d’uscita dalla polarizzazione estrema che oggi immobilizza la politica americana. Non si tratta di scegliere tra conservazione o rivoluzione, ma di trovare uno spazio in cui il dissenso non significhi necessariamente distruzione.
In fondo, come ho descritto nel mio libro, la sfida più grande per l’America contemporanea non è decidere quale partito debba guidare il Paese, ma ricostruire la fiducia tra i cittadini e le istituzioni. È un processo lungo e complesso, che richiede empatia, capacità di ascolto e la volontà di ammettere le contraddizioni. Perché solo accettando che il sistema è imperfetto ma riformabile si può sperare di ricucire la frattura che oggi lo minaccia.
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