Lo scorso dicembre, a Bangkok, si è svolto il terzo congresso del sindacato Building and Wood Workers’ International (Bwi), dove per la prima volta hanno partecipato anche i lavoratori cinesi. Erano in nove, ma con la voglia di condividere con gli altri la loro battaglia nel mondo del lavoro cinese. Hanno raccontato come si sono trasformati, da semplici operai arrabbiati, in attivisti che hanno imparato la forza della contrattazione collettiva, l’unione con i lavoratori di altre fabbriche, la condivisione delle esperienze personali anche in settori diversi.
La strada che hanno dovuto affrontare è stata lunga e difficile, ma hanno imparato ad usare i mezzi a loro disposizione, specialmente i nuovi, offerti dalle applicazioni per gli smartphone e i social media. E proprio con l’uso intenso di questi nuovi mezzi, sono riusciti a dar vita ad una nuova fase dei movimenti dei lavoratori cinesi. Un movimento 2.0, possiamo quasi definirlo. Queste nuove scoperte – ossia la partecipazione ad un evento internazionale come quello tenutosi a Bangkok – erano praticamente impensabili dieci anni fa; ma nella Cina moderna, contemporanea, i lavoratori stanno aprendo finalmente gli occhi verso un mondo in cui li vede non più vittime, bensì persone in grado di far sentire la propria voce al di fuori della propria fabbrica, che diventa a sua volta il modo migliore per vedere rispettati i propri diritti.
L’inverno cinese, da sempre, è la stagione degli scioperi. Il motivo è impensabile in occidente: circa 300 milioni di lavoratori migranti aspettano di essere pagati entro la fine di gennaio per tornare a casa per il capodanno cinese. Molti aspettano i salari da mesi, pazienti e convinti che prima di tornare nelle loro aree natie avranno quel gruzzoletto da esibire a parenti e amici. È tutta una questione d’orgoglio: tutto l’anno a sgobbare nelle miniere, nelle fabbriche, nelle industrie tecnologiche, solo per dimostrare che gli obblighi confuciani di figli e di genitori valgono il prezzo di un benessere da ridistribuire nelle famiglie e nei villaggi di provenienza. È il loro mianzi, l’orgoglio.
Non a caso la mappa del China Labour Bullettin non ha la pretesa di essere esaustiva, ma il semplice tentativo di catalogare le singole lotte sindacali cinesi in modo da ricostruire la situazione lavorativa in Cina. Negli ultimi due mesi si sono registrati circa 120 scioperi, per lo più nelle regioni costiere e sud-occidentali dove l’industria è più sviluppata. Lì i lavoratori chiedono non solo i salari per tornare a casa, ma aumenti e più sicurezza sul lavoro.
Nel 2013 i problemi sono stati parecchi, i più colpiti gli operai edili che spessissimo vedono andare in fumo le loro paghe a causa di una rete infinita di appalti e subappalti. Anche i lavoratori del tessile non se la passano bene a causa della domanda occidentale in calo: le aziende principali con sede in occidente ritardano i pagamenti e alle fabbriche in loco non rimane che non pagare i lavoratori per rimanere a galla nel pantano del lavoro cinese.
Unendo tutte queste incongruenze, il CLB ha previsto che una larga maggioranza degli operai cinesi torneranno nelle loro case con meno della metà degli stipendi. Stando ai loro dati, infatti, si evince che le proteste degli ultimi mesi – a cui nella gran parte dei casi hanno partecipato migliaia di lavoratori – non hanno sortito nessun effetto.
Ma è l’effetto duraturo che conta: l’aumento costante delle proteste, ha portato comunque ad un aumento delle paghe di circa il dieci per cento, e per il 2014 si prevede un aumento non dissimile se non superiore a quello del 2013. C’è da considerare, inoltre, che gli stipendi stanno crescendo più del Pil, problematica che si può affrontare solo con l’aumento della competitività, diminuendo il monopolio e puntando sulla crescita dei consumi interni. Anche perché la domanda, ovvero la richiesta occidentale di prodotti di largo consumo, non si sa quando tornerà a viaggiare ai ritmi pre-crisi. Per cui non esiste alternativa diversa, l’unica sul tavolo è lo sforzo programmato di traghettare l’economia del paese dall’industria manifatturiera ai servizi. E anche qui, come in occidente, sarà una strada in salita irta di pericoli e difficoltà sempre crescenti. Ma la Cina è un paese estremamente in crescita, l’unico probabilmente che ha ancora la forza di riemergere in tempi brevissimi.
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