Per una parte della destra, il politicamente corretto e la cancel coulture sono un’ossessione che distorce il dibattito, trasformando un normale conflitto culturale in una questione elettorale. In realtà, queste battaglie linguistiche influenzano poco gli elettori, che in gran parte cercano solo di essere rispettosi. Anche se c’è chi, invece, si compiace nell'usare termini offensivi.
E se davvero, alla fine, tutta questa guerra al politicamente corretto fosse il sintomo di un bisogno – consapevole o meno – di potersi sentire liberi di usare termini dispregiativi senza preoccuparsi delle conseguenze? Come se, sotto sotto, ci fosse il desiderio di tornare a chiamare “negri” i neri o “froci” gli omosessuali, giusto per il gusto di esprimere disprezzo. Un’idea provocatoria, è ovvio, ma che spiega bene l’insistenza quasi ossessiva con cui il politicamente corretto viene tirato in ballo. E non tanto dai suoi sostenitori, che ormai si contano sulle dita di una mano, quanto dai suoi oppositori più accaniti.
Prendiamo un esempio recente. Alcuni politici e commentatori della destra italiana hanno incolpato la “cultura woke” e la “cancel culture” per la sconfitta di Kamala Harris alle recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Una lettura che non regge. Nessun operaio texano preoccupato per il lavoro o per l’aumento dei prezzi cambia il proprio voto perché qualcuno lo invita a usare termini come “n-word” o perché esistono bagni gender-neutral.
La discriminazione nella politica americana e italiana
La spiegazione di questa bizzarra ossessione c’è, ed è tutta politica. Per una parte della destra, il politicamente corretto è diventato una specie di feticcio, un’ossessione che distorce la percezione della realtà. Si tratta di proiettare un normale conflitto culturale – quello tra progressisti e conservatori – sul comportamento delle grandi masse elettorali. Ma il problema è che, nei fatti, queste battaglie linguistiche contano pochissimo per gli elettori. La maggior parte delle persone, indipendentemente da come votano, cerca semplicemente di usare un linguaggio rispettoso nelle interazioni quotidiane. E poi c’è chi, al contrario, sembra provare piacere nel violare questa convenzione, tornando a usare termini che feriscono e discriminano.
In Italia la dinamica non è molto diversa. Nei giorni scorsi, certi giornali di destra hanno attribuito al sostegno (presunto) alla gestazione per altri (GPA) il calo di consenso del Partito Democratico e di Elly Schlein. Questo esempio racconta molto. Usare “gestazione per altri” al posto di “utero in affitto” non è un vezzo intellettuale, ma un atto di rispetto verso le donne coinvolte. Ciononostante, la destra trasforma questa precisione in un’arma politica, ridicolizzandola come eccesso di politicamente corretto.
La stessa logica si applica al termine “buonismo”, ormai sdoganato come un insulto. Usarlo significa legittimare un atteggiamento cinico e aggressivo nei rapporti sociali, un rifiuto di quei valori di civiltà che regolano le relazioni umane. Un esempio lampante è la missione in Albania: le critiche non riguardano solo i costi o la fattibilità, ma anche principi giuridici fondamentali, come l’intangibilità della persona e il diritto alla libertà personale. Critiche che, invece di essere prese sul serio, vengono liquidate come il solito moralismo del politicamente corretto.
Il diritto come principio
Alla radice di tutto c’è un diritto fondamentale: il diritto delle persone di decidere come essere chiamate. È un principio antico, che risale alla lotta degli schiavi per ottenere un nome proprio sottraendosi alla denominazione imposta dal padrone. Si può discutere sulle soluzioni adottate o su alcune esagerazioni, ma negare questo diritto è un passo indietro. Usare un linguaggio che disumanizza – come definire i migranti “cani e porci” – non è solo una sconfitta morale, ma danneggia anche chi lo promuove.
Basta guardare indietro: fino a pochi decenni fa, parole come “invertiti” o “mongoloidi” erano accettate sui giornali per parlare di omosessuali o persone con sindrome di Down. Oggi, giustamente, ci sembrano inconcepibili. Eppure, la battaglia per un linguaggio più inclusivo continua a essere derisa persino quando riguarda questioni tanto simboliche quanto innocue, come il desiderio di Giorgia Meloni di essere chiamata la presidente. Una richiesta che, in un certo senso, ha una sua romantica coerenza: anche lei, come tutti, vuole essere chiamata nel modo che sente più rappresentativo. Forse, basterebbe partire proprio da qui per capire che il rispetto – linguistico e umano – non è un lusso, ma un principio fondamentale della convivenza civile.
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