L’isola di Cipro è una Repubblica nel Mediterraneo situata tra Egitto e Turchia, conta poca più di un milione di abitanti ed ha un Pil di circa 20 miliardi di dollari. Poca cosa rispetto ai colossi europei e intercontinentali, eppure l’economia cipriota in questi giorni sta facendo tremare i mercati di tutto il mondo.

Nella nottre tra sabato e domenica, la Troika – ovvero il Fondo Monetario Internazionale, la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea – ha annunciato delle misure che molti analisti ritenevano impensabili: tassare i conto correnti dei cittadini ciprioti per finanziare un piano di aiuto all’isola di 10 miliardi. L’obiettivo è salvare l’economia di Cipro ormai prossima al crac finanziario.

Due le aliquote a cui faranno ricorso: per i depositi fino a 100mila euro si parla del 6.75%, del 9.9% per gli importi superiori. Ciò ha portato a delle conseguenze catastrofiche per l’economia cipriota, in primis le lunghe cose davanti ai bancomat per ritirare i risparmi prima che scatti l’imposta, e i grandi movimenti di denaro verso istituto di credito esteri. Le banche hanno però chiuso i battenti – sia agli sportelli che nei dispositivi automatici – fino a giovedì prossimo, per cui è stata resa vana ogni possibile corsa al ritiro dei soldi. Il codazzo è soprattutto degli investitori internazionali: chi assicura gli analisti che il prelievo forzoso a Cipro non possa avere un seguito, ad esempio, in Spagna, Grecia e persino in Italia?

Del resto proprio l’Italia è reduce da un doloroso precedente: nel 1992 l’allora presidente del consiglio Giuliano Amato impose un prelievo forzoso del 6 per mille – siamo ben lontani dal 9% cipriota, ma tant’è – dai conti dei risparmiatori italiani e imponendo un’imposta straordinaria sugli immobili. Le due misure assieme permisero al governo di raccogliere 11.500 miliardi di lire e salvare la nostra moneta dalla spirale della svalutazione. Oggi la situazione italiana è lontanissima da quella cipriota, ma per capire come Cipro sia arrivata a questi livelli bisogna fare un passo indietro di cinque anni.

All’origine della crisi cipriota c’è il legame strettissimo con l’economia greca; prima del 2007 le banche cipriote avevano investito parte dei propri asset in titoli di stato greci: anche quando la crisi greca era diventata evidente, le banche isolane avevano esitato a disfarsi dei bond ellenici. Quando la situazione greca è precipitata, con il conseguente taglio nel rendimento dei titoli, le banche cipriote hanno visto andare in fumo il 75% dei propri investimenti. Le continue titubanze hanno portato anche al collasso del Pil, crollato al 3.3% nell’ultimo trimestre del 2012, e l’aumento dell’indebitamento pubblico arrivato all’86% del prodotto interno lordo. L’alto indebitamento ha impedito al governo di intervenire per salvare le banche come è successo negli altri paesi UE nelle stesse condizioni; il buco nero finanziario ha minato la stabilità dell’isola al punto che un cipriota su quattro oggi è a rischio povertà. Viste le gravi condizioni, la Troika non poteva che intervenire con un piano di aiuti di 10 miliardi. Oltre al sostegno dell’UE, Cipro potrebbe vedersi aiutare anche dalla Russia con una dilazione della scadenza dal 2016 al 2021 di un precedente prestito pubblico di 2,5 miliardi di euro. La Russia è impegnata in prima persona soprattutto perché gli oligarchi russi tengono i loro soldi nelle banche cipriote, dato che l’isola è ritenuta uno dei pochi paradisi fiscali europei.

La paura dei mercati europei è misurata dalle borse: all’apertura di ieri mattina, all’indomani dell’annuncio del prelievo forzoso, l’indice italiano Ftse Mib ha perso quasi il 2%, stessa cosa l’Ibex 35 spagnolo, mentre il Dax tedesco è calato dell’1% e il Cac 40 francese dell’1,25%. L’euro ha perso terreno nei confronti di dollaro e yen, il rendimento dei titoli ciprioti è salito al 10% per l’alto rischio dell’investimento, e in Europa si fanno sempre più frequenti le voci secondo cui la Troika potrebbe decidere di attuare lo stesso piano forzoso per quei paesi al limite della stabilità economica. D’altra parte i giudizi di Morgan Stanley, Moody’s e Goldman Sachs vanno verso questa direzione.