Yan Xuetong invita la Cina a guidare con regole e moralità per superare la crisi di leadership e l’instabilità globale causata dagli Stati Uniti.

L’attuale stagione della politica internazionale, ormai lo abbiamo capito, è in gravissima crisi e i punti di riferimento a cui eravamo abituati sembrano dissolversi uno dopo l’altro. Ed è qui che la voce di Yan Xuetong emerge con una chiarezza che pochi analisti possono vantare. Nato nel 1952, Yan è oggi direttore dell’Institute of International Relations della Tsinghua University – una delle università più prestigiose della Cina – oltre che segretario generale del World Peace Forum di Pechino, e rappresenta non solo un punto di riferimento accademico, ma una vera e propria “autorità” nella lettura dei rapporti di forza globali, capace di influenzare tanto il dibattito interno quanto quello internazionale.

La sua teoria del “realismo morale” ha suscitato, negli ultimi anni, un dibattito che va ben oltre i confini cinesi. Yan Xuetong non si limita a osservare i mutamenti del sistema internazionale, ma propone una chiave di lettura che ambisce a interpretare, e in parte anche a guidare, la transizione in atto. Il “realismo morale”, nella sua visione, non è un ossimoro: nasce dal tentativo di tenere insieme il dato materiale della competizione tra Stati e la necessità di una legittimità etica, di una dimensione valoriale che dia senso e stabilità ai rapporti internazionali.

Il punto di partenza, per comprendere Yan Xuetong, resta sempre l’interesse nazionale. Già alla fine degli anni Novanta, nei suoi primi lavori, Yan chiariva come gli interessi della Cina – e per estensione di ogni grande potenza – non derivino da una logica di classe o da pulsioni ideologiche, ma da una convergenza sostanziale tra governanti e governati. In questa prospettiva, il vero cemento della coesione nazionale, e dunque della proiezione internazionale, si trova nell’unità territoriale e nella prosperità condivisa. Non è un caso che Yan abbia sempre rigettato l’idea di una Cina divisa, rifiutando al tempo stesso ogni nostalgia per l’internazionalismo proletario: la sua attenzione resta fissata sulle priorità concrete, sulla difesa di uno spazio nazionale che si vuole indivisibile e capace di garantire benessere diffuso.

Il secondo pilastro della sua analisi è la leadership politica, intesa non come semplice “comando”, ma come funzione di orientamento strategico e, soprattutto, come variabile decisiva nei momenti di crisi o di transizione. Per Yan Xuetong, i cambiamenti che plasmano l’ordine globale non sono mai neutri: dipendono dalla qualità della leadership espressa dalle potenze dominanti. È qui che entrano in gioco due concetti centrali nella sua riflessione: la “contabilità interna”, cioè la responsabilità del leader verso la propria società, e la “credibilità esterna”, ovvero il riconoscimento e la fiducia accordata dalla comunità internazionale.

Da questi presupposti, Yan articola una distinzione che affonda le radici nella tradizione politica cinese: quella tra “autorità umana” (guandau) ed “egemonia” (badau). La prima si fonda sulla virtù, sull’etica pubblica, sulla capacità di attrarre consenso e rispetto attraverso comportamenti esemplari e affidabili; la seconda si regge invece sulla pura forza materiale, sull’imposizione e sulla minaccia. Nella lettura di Yan Xuetong, solo la prima, quella che lui definisce “leadership morale”, può offrire una stabilità durevole. Le potenze che scelgono la strada dell’egemonia, al contrario, si espongono inevitabilmente a un destino segnato dalla precarietà, dal sospetto e, alla lunga, dal declino.

Questa visione, che si potrebbe liquidare come un esercizio di propaganda – e di certo offre sponde al racconto ufficiale del Partito Comunista cinese – diventa però interessante per la sua capacità di leggere in controluce tanto le debolezze degli Stati Uniti quanto le opportunità che la Cina intravede nello scenario attuale. Ed è proprio su questo punto che Yan, nel suo ultimo intervento al Forum Mondiale per la Pace di Pechino, ha fornito spunti che hanno fatto discutere gli osservatori, sia in patria che all’estero.

Nella sua analisi, Yan Xuetong parte da un dato che oggi appare innegabile: il passaggio, negli equilibri globali, dall’attenzione alle questioni economiche al primato delle preoccupazioni di sicurezza. L’aumento dei conflitti armati, l’instabilità diffusa e la tendenza a gestire le crisi in modo sempre più improvvisato rappresentano, per Yan, la spia di un ordine internazionale in profonda crisi. Non si tratta solo di eventi isolati: la diffusione di guerre croniche, la proliferazione nucleare e il moltiplicarsi di atti che violano apertamente il diritto internazionale testimoniano la rottura di regole e principi che avevano garantito una relativa stabilità per almeno trent’anni.

Yan non risparmia critiche agli Stati Uniti, che considera corresponsabili di questa crisi. La sua accusa, tuttavia, non si limita alle intenzioni: ciò che viene messo sotto accusa è la debolezza della leadership americana, la sua incoerenza e la facilità con cui si lascia influenzare da pressioni particolari o da decisioni dell’ultimo minuto. L’esempio che cita spesso – e che trova conferme nell’attualità – riguarda le scelte oscillanti della politica statunitense in Medio Oriente, dalla gestione della crisi iraniana all’atteggiamento ambiguo nei confronti di Israele. Secondo Yan Xuetong, quando una leadership abdica alla propria funzione di garante e si riduce a gestire le crisi con telefonate improvvisate, si smarrisce ogni previsione: il sistema internazionale si trasforma in un ambiente caotico e imprevedibile.

La degenerazione della leadership, nella sua lettura, non è solo un fatto di metodo, ma produce conseguenze tangibili: la diffusione dei conflitti – dall’Ucraina alla Striscia di Gaza – e la crescente tendenza a ignorare norme e standard universalmente riconosciuti. Yan Xuetong sottolinea in particolare il rischio di una “normalizzazione” delle violazioni più gravi, dalla proliferazione nucleare agli attacchi deliberati contro civili o infrastrutture essenziali, passando per la sistematica elusione dei principi umanitari nei conflitti contemporanei. Tutto questo, avverte, costituisce la prova di un fallimento profondo: dove manca una leadership dotata di legittimità morale, si producono instabilità e incertezza, con il rischio concreto che nessun attore possa più garantire l’equilibrio.

Un altro tema che Yan Xuetong inserisce nel suo discorso è la deglobalizzazione, fenomeno che per lui non si esaurisce nelle dinamiche economiche, ma riflette una trasformazione strutturale del sistema internazionale. La rottura delle catene di approvvigionamento, il crescente ricorso alle sanzioni e la preferenza accordata ai vantaggi relativi – cioè a misure che rafforzano la posizione di uno Stato a scapito degli altri – sono il segno di una competizione sempre più aspra, dove la logica della cooperazione virtuosa viene soppiantata dalla tentazione della coercizione. Tuttavia, Yan invita a non confondere i piani: la vera leadership, quella che poggia sull’autorità umana, mira a costruire benefici condivisi e stabilità di lungo periodo; l’egemonia, al contrario, si nutre di strumenti coercitivi e della paura.

Quando si arriva a parlare di Cina, il discorso di Yan Xuetong assume una valenza quasi prescrittiva. La sua tesi è che, nel momento in cui Stati Uniti e loro alleati sembrano rinunciare all’idea di un ordine internazionale fondato su regole, spetta a Pechino la responsabilità – e l’opportunità – di raccoglierne l’eredità. Ma non basta proclamarlo: la Cina, per dimostrarsi davvero una potenza responsabile, deve promuovere e rispettare standard condivisi, rifiutare l’imprevedibilità e la tentazione di azioni arbitrarie, soprattutto su dossier delicati come Taiwan. La credibilità di Pechino, nel racconto di Yan Xuetong, si misura sulla capacità di incarnare fino in fondo quei principi di prevedibilità e fiducia che oggi mancano agli Stati Uniti e, più in generale, a tutto l’Occidente.

In definitiva, l’analisi di Yan Xuetong invita a osservare la crisi dell’ordine globale con uno sguardo meno ideologico e più attento alle dinamiche della leadership. Non si tratta solo di scelte politiche o economiche: a cambiare è la grammatica stessa delle relazioni internazionali, il rapporto tra potere e legittimità, tra forza e autorità morale. In questo passaggio, la Cina può diventare, secondo Yan, un nuovo polo di stabilità, a patto che sappia evitare gli errori e le scorciatoie di chi l’ha preceduta. Diversamente, anche la sua credibilità finirà per evaporare, esattamente come quella degli Stati Uniti che oggi accusa il colpo del proprio declino.