QUESTO ARTICOLO HA PIÙ DI 11 ANNI.    

Alla direzione nazionale di ieri Matteo Renzi ha messo in gioco la sua faccia e quella del Pd: «Io rischio tutto, ma senza svolta il Pd muore». È l’Armageddon della svolta, prima dell’incontro con Berlusconi – che probabilmente avverrà oggi – su legge elettorale, riforma del Titolo V e la vele­nosa riforma del Senato che vedrà trasformata la camera alta in un organo non elet­tivo, com­po­sto da sin­daci e pre­si­denti di regione, che non darebbe la fidu­cia al governo ma con­ser­ve­rebbe quel tanto di potere legi­sla­tivo che basta. Rischia anche Letta, naturalmente, e Alfano che il presidente del Consiglio continua a tutelare per tutelare il governo. Renzi ripete di non accettare i ricatti dei partitini, e Angelino, come sbotta a fine intervento, «non è uno di noi».

Gli ultimatum che ha lanciato al gruppo parlamentare non perfettamente allineato al nuovo corso parlano da soli: chi non appoggerà la linea del partito sarà automaticamente fuori; e se all’approvazione della legge elettorale o per la riforma del Senato si vedrà un tiro alla Prodi, il segretario è pronto a consegnare le dimissioni. Il dado è tratto. I 35 civatiani astenuti al momento del voto sono avvisati: nella direzione di lunedì prossimo il partito farà una proposta documentata sulla legge elettorale, fate in modo di non perdere tempo con le solite meline da Prima Repubblica.

Innocua, ma fin poco velata, frecciatina anche per Letta: «Se ci sarà l’intesa per que­ste riforme, oltre che per la legge elet­to­rale, il governo dovrà andare avanti almeno un anno», conclude Renzi. Già, ma con quale maggioranza?