La nuova riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali dovrebbe arrivare entro la primavera 2012. Sarà legata al un nuovo sistema contributivo pro rata delle pensioni e per il precariato è pronta la proposta Ichino.
Si sa che verrà introdotta una flessibilizzazione nei contratti d’ingresso grazie all’introduzione di un modello di contratto graduale capace di accompagnare l’allungamento della vita lavorativa e le future uscite flessibili per il pensionamento. Tuttavia, sulla riforma del lavoro e sul contratto graduale, il governo Monti mantiene un riserbo pressoché totale manco fosse un segreto di stato. Ciò che ci è dato conoscere sono solo gli obiettivi: superare nel modo più virtuoso possibile il dualismo che oggi blocca il mercato del lavoro, con le tutele attuali da una parte e l’infinita rosa di offerte precarie dall’altra. Per raggiungerlo ci si dovrà necessariamente confrontare con i sindacati e le parti sociali per conoscere le loro analisi dell’assetto attuale del mercato del lavoro, e le loro proposte di intervento concreto.
Il contesto di questo nuovo contratto graduale è abbastanza chiaro. Se con la riforma previdenziale si è passati dal sistema retributivo a quello contributivo, urge prevedere a questo punto un nuovo contratto di lavoro che tuteli le esigenze dei più anziani che non hanno ancora maturato i requisiti per il pensionamento, e che, con la nuova normativa, rischiano il posto di lavoro. Avremmo bisogno di un contratto capace di prevedere tempi di lavoro graduati per i più anziani – che possono anche accettare una retribuzione inferiore in mancanza di proposte concrete derivate all’età – ma che possono cominciare ad incassare una parte dell’assegno previdenziale direttamente in busta paga.
L’Italia sta sperimentando adesso il contratto graduale, in Europa invece è realtà da molto tempo. Modificare le otto ore di lavoro standard, per rendere possibile l’allungamento della vita lavorativa ai fini della pensione di vecchiaia, potrebbe essere una delle strade percorribili. Un’altra strada potrebbe essere quella di graduare anche le mansioni del singolo lavoratore, magari tenendo conto del “ciclo di produttività” associato al “ciclo di vita”, con una rivisitazione della forma retributiva che pesa di più quasi esclusivamente negli anni vicino al pensionamento. Si potrebbe pensare addirittura ad un cambiamento delle mansioni negli anni di lavoro vicini al ritiro, oppure, perché no, guardare all’ipotesi di “tutoraggio per gli apprendisti” a cui faceva riferimento tempo fa l’ex ministro Sacconi.
Ma il valore aggiunto di questa riforma sarà eliminare il precariato dei giovani. Anche se l’articolo 18 è un tema che non può essere oggetto di trattativa secondo i sindacati, è inevitabile che la Fornero dovrà intervenire in qualche misura almeno sulla flessibilità in uscita. Una soluzione si potrebbe trovare lasciando inalterate le tutele per chi ha già il lavoro e introducendo una nuova figura contrattuale, con minori tutele in uscita ma con maggiori garanzie, per chi entra nel mercato del lavoro. Dobbiamo renderci conto che il dualismo tra lavoratori protetti e non protetti negli ultimi anni è aumentato a dismisura: oltre alla solita divisione tra coloro che lavorano o meno presso aziende con più di 15 dipendenti (quelli protetti dall’articolo 18), dal 2003 la legge Biagi ha dato il via alla libera “precarizzazione” dei contratti, introducendo nuove forme innovative di lavoro, e quindi maggiori possibilità di assunzione, con tuttavia minori garanzie per gli assunti. In realtà anche se sono stati creati posti di lavoro, nel lungo andare è aumentato il divario tra lavoratori protetti (o iper-protetti) e giovani precari.
La Fornero è dunque chiamata a un compito difficile: partendo dalle idee del giuslavorista Pietro Ichino, dovrà elaborare una proposta valida per tutti che riesca a superare il dualismo tra lavoratori iper-protetti, dipendenti delle aziende con oltre 15 addetti, e quelli delle piccole e piccolissime imprese esposti al licenziamento. La proposta dovrà dare innanzitutto una risposta all’estrema precarietà del lavoro giovanile che sta condizionando il futuro del paese. L’idea cardine che potrebbe essere presa in considerazione è formulata da Ichino: tutti i contratti saranno a tempo indeterminato, tranne i casi classici di contratto a termine; a tutti verranno estese le protezioni essenziali; nessuno più sarà inamovibile. Le aziende potranno licenziare anche per motivi economici (in parte esistente: la formula degli ammortizzatori sociali dal 2009 prevede la cassa integrazione e la mobilità anche per le aziende in crisi). Secondo l’idea del governo Monti, però, chi perde il posto avrà garanzia di continuità del reddito, e l’assistenza e gli investimenti sulla professionalità durante il passaggio del vecchio al nuovo lavoro. L’idea sulla carta è validissima, dal mio punto di vista – difatti è in vigore con successo in molti paesi nordici come Danimarca, Svezia e Finlandia – restano ancora da vedere i dettagli e convincere i sindacati a cambiare posizione.
Il dato certo è che questo governo – vuoi perché non ha scopi elettorali, vuoi perché i tecnici guardano al risultato più che alla forma – per la prima volta dopo decenni sta mettendo mano ad un’idea di welfare diverso da come eravamo abituati, e l’idea, a occhio, non può essere così malvagia come la si dipinge.
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