Il ritiro di Rafa Nadal, tardivo e malinconico, invita a riflettere sul difficile equilibrio tra gloria e declino nello sport. Avremmo voluto un addio epico, ma resta il ricordo di una carriera leggendaria e il monito sull'importanza di scegliere il momento giusto per fermarsi.

Il ritiro di Rafa Nadal, tanto atteso quanto temuto, solleva riflessioni profonde su un tema universale nello sport: il momento giusto per dire addio. Sarebbe stato magnifico vederlo chiudere la carriera con un’ultima epica vittoria, magari davanti al pubblico adorante della sua Spagna. Invece il suo addio è arrivato tardivo, consumato tra sconfitte contro avversari ben lontani dal suo livello di un tempo. E, come spesso accade con gli atleti che rimandano il ritiro, lascia un senso di malinconia, riconoscenza e un pizzico di inevitabile disagio.

C’è un’espressione ricorrente nel mondo dello sport: “l’atleta muore due volte”. La prima è quella sportiva, quando il campione si ritira, o viene costretto a farlo. È una morte simbolica ma profondamente reale: non segna la fine biologica della vita, ma la conclusione definitiva di ciò che ha definito l’identità dell’atleta. È una cesura radicale che apre un vuoto, un “abisso sotto i piedi”, come lo descrive Coelho. Per molti, persino per chi ha un futuro sereno già pianificato come Nadal, l’idea di chiudere con la competizione può essere spaventosa, come un salto nel vuoto.

Lo sport, dopotutto, è un mondo crudele da questo punto di vista: si va in pensione da giovani, spesso quando il resto della vita è ancora tutta da vivere. È un salto nel buio: dopo anni di gloria, abituati all’adorazione del pubblico e all’adrenalina della competizione, il passaggio a un’esistenza più ordinaria può risultare sconvolgente. È una paura che spinge tanti atleti a rimandare l’inevitabile, aggrappandosi a ogni possibilità di restare in gioco, anche quando le condizioni fisiche e mentali non sono più le stesse.

La tentazione di restare

C’è qualcosa di profondamente umano – e al tempo stesso crudele – nell’incapacità di accettare il momento giusto per fermarsi. È una lezione che nello sport si ripete con frequenza disarmante, soprattutto ai livelli più alti, dove la gloria passata sembra un’armatura capace di sfidare anche il tempo. Eppure, la lista degli atleti che hanno allungato inutilmente la propria carriera è lunga e illustre: Pelé, Maradona, Cruyff, Beckenbauer, Guardiola. Oggi, lo stesso copione si replica con Messi, Cristiano Ronaldo, Busquets, Suárez e altri nomi che un tempo erano sinonimo di grandezza, ma che ora faticano a lasciare il palcoscenico.

Non è il caso di Zizou Zidane, ad esempio, che scelse di chiudere con dignità al termine di una finale Mondiale – pur con una macchia di troppo – o di Frank Rijkaard, che annunciò con semplicità il suo ritiro nello spogliatoio dell’Ajax dopo una vittoria in Champions League contro il “suo” Milan; o, ancora, Éric Cantona, che ha smesso pochi giorni dopo aver compiuto 31 anni. Sono scelte rare, quasi eccezionali, che trasmettono un senso di chiusura perfetto. Nel ciclismo, Alberto Contador salutò il suo sport dopo un’ultima vittoria epica sull’Angliru, lasciando il ricordo di un combattente che ha dato tutto.

Ma quanti, invece, continuano oltre il punto di non ritorno? Alfredo Di Stéfano, Roger Federer, Serena Williams, Usain Bolt: tutti hanno sfidato il proprio tramonto, chi per orgoglio, chi per passione, chi per incapacità di accettare la fine. Anche Nole Djokovic, che per certi versi sembra ancora imbattibile, potrebbe iniziare a riflettere sul momento di smettere prima che la sua leggenda venga offuscata da una inevitabile fase calante. È lo stesso errore che, forse, sta commettendo oggi Sergio Ramos, mentre la luce si affievolisce lui continua a insistere, sempre più lontano dalla forma che lo aveva reso imbattibile.

Certo, una carriera che si prolunga troppo non cancella i successi: la grandezza rimane lì, intatta, ma la narrazione si sporca, si appanna. È un po’ come un libro avvincente che, nelle ultime pagine, perde di colpo lo slancio e lascia una sensazione di incompiutezza. Chi sa ritirarsi nel momento giusto non solo onora il passato, ma lascia un ricordo limpido, inalterato.

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L’altra faccia della medaglia

Dall’altra parte dello spettro ci sono gli atleti che scelgono di ritirarsi troppo presto, quasi con un eccesso di premura. Nuotatori come Shane Gould, che a soli 16 anni aveva conquistato tutto, dominando ogni distanza nello stile libero; o Mark Spitz, che lasciò le piscine a 22 anni dopo aver vinto sette ori olimpici a Monaco nel 1972. Si tratta di scelte opposte, radicali, che lasciano un vuoto diverso: quello del “chissà cosa avrebbe potuto fare ancora”.

In fondo, il dilemma di quando ritirarsi – nello sport come nella vita – non è solo una questione di capacità fisiche o di vittorie da aggiungere al palmarès. È una decisione che tocca corde più profonde: la capacità di accettare i propri limiti, di rinunciare alla ribalta, di lasciare spazio al nuovo. E forse è proprio questa la più grande vittoria: sapere dire basta nel momento perfetto, lasciando agli altri il compito di raccontare la propria leggenda, senza bisogno di aggiungere altro.

L’inevitabile declino

Nadal appartiene al gruppo di chi ha resistito troppo. Non che questo intacchi ciò che ha costruito: la sua carriera rimarrà tra le più straordinarie della storia dello sport. Ma il ritardo nel ritiro rischia di lasciare un retrogusto amaro, di trasformare il suo crepuscolo in una serie di immagini sbiadite che non rendono giustizia al fuoco con cui ha illuminato il tennis.

Saper andare via al momento giusto è una virtù rara. Richiede di accettare la propria umanità e di riconoscere che, contro il tempo, non si vince mai davvero. Ma questa capacità non è solo una lezione per gli atleti: è un insegnamento universale. Forse Nadal non ha saputo cogliere l’attimo giusto per dire addio, ma la sua carriera resta un monumento alla dedizione, alla resilienza e alla grandezza. E, in fondo, è questo che conta davvero per l’immenso Rafa Nadal.