Se le nazioni imparassero a raggiungere la piena occupazione con le loro politiche interne, non ci sarebbero più forze economiche che mettono gli interessi di un paese contro quelli dei vicini […]. Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è, cioè un espediente disperato per mantenere l’occupazione interna spingendo le vendite all’estero e limitando gli acquisti, che – se funziona – non fa altro che spostare il problema della disoccupazione sul paese vicino che esce dalla lotta in condizioni peggiori.
John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936
La visione di sviluppo occidentale è fondata quasi interamente sulle esportazioni in quanto faciliterebbero il commercio e gli investimenti. Fondamentalmente è vero: un quarto di punto in più di export è in grado di far crescere una nazione e, per diretta conseguenza, far rivincere le elezioni a chi la guida in quel momento. È il caso dell’Europa a maggio; è anche il caso degli Stati Uniti con le elezioni di medio termine alla fine dell’anno.
Ma come indica Keynes nella sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, quel briciolo di punto guadagnato è sostanzialmente un benessere illusorio ed effimero: deprimere la periferia d’Europa potrebbe trascinarsi tutta l’Europa, compresi quei paesi che attualmente stanno meglio. Sei anni di crisi feroce, sia economica che occupazionale, ci ha fatto ripiombare nella Grande Depressione del ’29, e non è un caso che la teoria keynesiana fu usata – subito dopo quella grande crisi – da economisti e uomini di governo per quasi cinquant’anni.
Io non sono un esperto di macro-economia, ma forse è il caso di lasciar perdere per il momento il monetarismo di Friedman, e tornare alla rivoluzione keynesiana: in fondo vale sempre la pena tentare per migliorarsi.
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