Thomas Friedman sul New York Times ha scritto che il mondo è diviso in AC, prima del Corona, e in DC, dopo il Corona. Ha ragione: ce lo ricordano le bare per le strade deserte di Bergamo e le fosse comuni scavate a New York. Esiste un “prima” ed esisterà un “dopo”. Ci sono i giorni per contare i morti e i giorni che contiamo per il ritorno a una vita quasi normale.
Abbiamo bisogno della nostra vita normale, del nostro lavoro normale, dei nostri abbracci normali. Ne abbiamo estrema necessità, come l’aria e l’acqua.
Ieri il Presidente del Consiglio ha indicato la gradualità per uscire dal tunnel che opprime sei milioni di famiglie, ha già bruciato 8 punti di Pil ed è costato finora 160 miliardi di fatturato alle imprese. La road map del governo è in divenire, mentre gli altri paesi – e non parlo della “solita Germania”, ma di Spagna e Portogallo colpite dal Covid come noi – lo hanno già fatto o lo stanno facendo in questi giorni. Noi ne usciremo a scaglioni dal 4 maggio in poi, tra una settimana. E nemmeno tutto: usciremo solo per far visita ai parenti e per fare quattro passi all’interno del nostro comune. Gli altri paesi hanno agito per riaprire, noi no.
Non dico che sia sbagliato, voglio solo capire il motivo.
Se siamo il paese la cui organizzazione tutti ci invidiano (parole di Conte), perché non riusciamo a ripartire come tutti gli altri? Perché restiamo sgretolati negli ingranaggi della macchina burocratica (Stato-Regioni, Protezione Civile-Comitato Scientifico, Commissione Pisano-Comitato Colao, etc. etc. etc.)? Perché la ripartenza deve passare attraverso 45 “task force” e 600 esperti? Perché in corsia muoiono centinaia di medici e infermieri? Perché sui morti nelle Rsa indagano le procure? Perché sembra di stare in un limbo tra Lazzaretto peninsulare e colonia penale? È questo che mi chiedo.
La pazienza ha un limite, e quel limite ora come ora è un filo talmente sottile che basta un alito di vento per spezzarlo.
Migliaia di aziende non riescono a ottenere i 15mila euro di prestito automatico perché le banche chiedono un numero incredibile di documenti (e la colpa non è delle banche, sia chiaro). Dieci/quindici milioni di lavoratori aspettano cassa integrazione e contributi vari bloccati dalle innumerevoli procedure burocratiche.
C’è chi non riesce più nemmeno a mangiare, lo capite?
Abbiamo bisogno di un servizio pubblico che sia DAVVERO pubblico e con MENO burocrazia. Se manca questo, non si riparte. Se manca questo, manca lo Stato.
La Fase 2 è il miracolo all’orizzonte. Ma di miracoloso c’è che NOI siamo pronti a ripartire, lo STATO no. Per ripartire bisognerebbe dare più fiducia agli italiani che hanno dimostrato in questi due mesi di essere ligi alle regole rimanendo a casa come diceva il governo, senza protestare e senza chiedersi se fosse giusto farlo. Lo abbiamo fatto perché convinti che fosse l’unico modo per evitare i contagi e farli aumentare. Siamo stati muti per 70 giorni: muti e obbedienti come una nazione civile DEVE fare in questi casi. Io sono uno di questi e me ne vanto.
Abbiamo il miglior Presidente del Consiglio che potessimo permetterci in periodi bui come questi. Lo abbiamo ascoltato nelle ore più impensabili, lo abbiamo amato per la calma e la compostezza che emanava, lo abbiamo accolto come un amico che veniva a trovarci a ora di cena.
La pazienza però è finita, siamo sfiancati e sfiniti. Non ne possiamo più.
Si fidi di noi, Presidente Conte. Si fidi e ci lasci uscire pur mantenendo il distanziamento sociale e le protezioni di sicurezza obbligatorie. Si fidi e lasci aprire le attività commerciali che con molta fortuna e tanta forza interiore potrebbero ancora farlo. Si fidi e lasci aprire i cantieri, magnifica filiera produttiva dei territori. Si fidi e lasci aprire le aziende che con l’aiuto del governo, col suo aiuto, si adopereranno per mettere in sicurezza il posto di lavoro di milioni di lavoratori stremati dal virus e dalle privazioni di questi due mesi.
Si fidi, Presidente. E ci lasci vivere.
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