La popolazione ucraina è esausta dai bombardamenti russi, mentre Zelensky adatta una nuova strategia: l'idealismo patriottico lascia il posto a un “piano di resilienza”. Con Trump di nuovo alla Casa Bianca, crescono i dubbi sul futuro degli aiuti e sull’approccio necessario per contrastare Putin in una guerra sempre più logorante.

Dopo oltre mille giorni di guerra, l’Ucraina sta attraversando una delle fasi più difficili del conflitto. Il fronte militare è bloccato in una lenta ma costante ritirata, con le forze russe che avanzano nel Donbass e, sorprendentemente, anche nella regione russa di Kursk, dove gli ucraini avevano guadagnato terreno durante l’estate. La perdita di metà dei circa 1.100 chilometri quadrati conquistati ad agosto sta riducendo le opzioni negoziali di Kiev. Anche il recente via libera di Joe Biden all’utilizzo dei tanto attesi missili a lungo raggio ATACMS, accolti inizialmente come una svolta, sembra incapace di invertire la tendenza o di cambiare significativamente gli equilibri sul campo.

Ma le difficoltà maggiori non sono solo militari. La sofferenza dell’Ucraina è soprattutto sociale e morale. La popolazione, stremata dai continui attacchi con droni e missili russi sulle città, fatica sempre di più a sopportare i lutti, le distruzioni e le privazioni di una guerra che sembra non avere fine. Per la prima volta, emergono segni tangibili di disillusione, anche verso la leadership di Volodymyr Zelensky. L’ondata di patriottismo che aveva unito gli ucraini dopo l’invasione del 2022 sta lasciando il posto a critiche sempre più esplicite, anche da parte di chi è al fronte. Un soldato, parlando con l’inviato del Financial Times, ha dichiarato senza mezzi termini di non voler più combattere “per quel governo di corrotti che sta a Kiev”.

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La luna di miele è finita

Queste parole riflettono un malcontento crescente, alimentato anche dalle controverse decisioni di Zelensky. I licenziamenti improvvisi di figure chiave, come il generale Zaluzhny e altri funzionari considerati competenti e integerrimi dai partner occidentali, sono stati percepiti da molti come manovre di potere piuttosto che come scelte dettate da ragioni strategiche. La mobilitazione militare, che all’inizio era stata accolta con un senso di dovere patriottico, ora genera resistenze. Sempre più persone cercano di evitare la leva o di fuggire all’estero, mentre la caccia agli imboscati diventa un fenomeno diffuso.

Anche a livello di opinione pubblica, si intravedono segnali di un cambio di atteggiamento. Secondo alcuni sondaggi, cresce l’indifferenza nei confronti di eventuali concessioni territoriali pur di porre fine al conflitto. Questa tensione riapre vecchie ferite, come la divisione tra l’Ucraina filo-europea e quella russofona, che si era acuita durante la rivoluzione di Euromaidan e la successiva guerra a bassa intensità nel Donbass. Dopo mille giorni di guerra ad alta intensità, l’unità costruita intorno alla resistenza sembra scricchiolare sotto il peso dell’esaurimento nervoso.

La resilienza di Zelensky

Zelensky sembra consapevole di questi cambiamenti, sia all’interno del paese sia sul piano internazionale. La sua critica alla telefonata del cancelliere tedesco Olaf Scholz a Vladimir Putin, vista come un segnale di appeasement da parte dell’Occidente, tradisce una certa preoccupazione per l’eventuale perdita di sostegno esterno. Allo stesso tempo, Zelensky sta adattando il suo messaggio: l’idealismo guerriero che lo aveva contraddistinto nei primi anni di guerra lascia spazio a un approccio più realistico. Non si parla più di un “piano per la vittoria”, ma di un “piano di resilienza”.

Questo cambiamento sembra riflettere anche le incertezze del contesto internazionale. Sebbene abbia ottenuto un rinnovato supporto dal G7 e dai missili ATACMS di Biden, queste mosse appaiono più simboliche che strategiche. La scarsità di riserve di questi armamenti e il tempismo della loro concessione, vicino all’insediamento presidenziale, suggeriscono che potrebbero essere anche un gesto politico nei confronti di Donald Trump, piuttosto che un vero tentativo di influenzare la guerra.

Infine, Zelensky si prepara ad affrontare il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Invece di opporsi, sembra voler trasformare questa eventualità in un’opportunità, affermando che potrebbe avvicinare la pace. Ha dichiarato di essere disposto a “fare di tutto” per arrivare a una soluzione diplomatica con la Russia entro il 2025. Questo spostamento verso un approccio trattativista è forse l’indicazione più chiara della pressione che l’Ucraina sta subendo su tutti i fronti, militari, sociali e politici.

Si vis pacem, para bellum

Fare la pace richiede la volontà di entrambe le parti. Da un lato c’è l’Ucraina, dall’altro Vladimir Putin, un leader che, almeno in apparenza, non sembra avere alcuna fretta di porre fine al conflitto. Anzi, continua a rafforzare la sua posizione: oltre ai rinforzi nordcoreani, stimati in 12mila soldati, può contare su una riserva inesauribile di uomini da mandare al fronte. Le cifre sono impressionanti e agghiaccianti: fonti militari britanniche stimano che nell’ultimo mese le perdite russe abbiano raggiunto un ritmo di 1.500 uomini al giorno, tra morti e feriti.

Eppure, al di là della carneficina, resta un mistero cosa abbia in mente davvero il presidente russo. In Occidente si parla molto delle sue possibili intenzioni: il piano più citato, e forse più plausibile, è quello della cosiddetta “soluzione coreana”. L’idea sarebbe di congelare il conflitto sulle attuali posizioni, senza arrivare a un accordo di pace vero e proprio. Ma è solo un’ipotesi costruita a tavolino da analisti occidentali, che spesso finiscono per proiettare su Putin ciò che vogliono sentirsi dire. È un po’ come parlare allo specchio, per usare l’immagine di Nikita Krusciov: lo storico Sergey Radchenko racconta che Krusciov, preparando un incontro con Dwight Eisenhower, rifletteva su come le sue supposizioni fossero solo un riflesso delle sue speranze. Lo stesso vale oggi: possiamo davvero credere che queste ipotesi rispecchino ciò che pensa Putin?

Donald Trump, dal canto suo, afferma con la solita sicurezza di avere la chiave per risolvere tutto. Dice di sapere come affrontare Putin, di poterlo convincere a trovare un accordo con Zelensky chiudendoli in una stanza e facendoli discutere. Ma questa sicurezza lascia molte domande aperte. Trump conosce davvero Putin, o è un altro esempio di quella vanità che porta a sottovalutare l’inafferrabilità del leader russo?

Nella testa di Putin

Secondo Ivan Krastev, eccellente politologo e uno dei massimi esperti di Russia a livello internazionale, il Putin del 2024 è una figura trasformata rispetto a quella del 2022, l’anno in cui la guerra è iniziata. Krastev lo paragona alla differenza tra lo Stalin del 1940, pragmatico e tattico, e lo Stalin del 1944, profondamente cambiato dalla Seconda guerra mondiale. Quella che Putin aveva definito inizialmente una “operazione militare speciale” per riportare l’Ucraina nella sfera d’influenza russa si è trasformata in una guerra aperta contro la Nato combattuta sul suolo ucraino. Questo è il punto cruciale della sua storia, come emerge chiaramente anche dai suoi ultimi discorsi pubblici, pronunciati con la sicurezza di un leader appena rieletto per il sesto mandato.

Alla luce di questo contesto, appare quasi impossibile che Putin accetti una pace che non possa essere interpretata come una vittoria russa. Per lui, ogni compromesso imposto dall’Occidente, e ancor più da un presidente americano, sarebbe percepito come una sconfitta. Un vecchio proverbio russo descrive bene la situazione: “Se inviti un orso a ballare, non sei tu a decidere quando il ballo è finito, ma lorso”.

In questo caso, l’orso russo non sembra intenzionato a fermarsi. E più il conflitto si prolunga, più la danza diventa pericolosa per tutti quelli che vi sono coinvolti.