Le primarie del 3 marzo sembrano una faida interna più che una consultazione popolare per decidere il prossimo segretario del Partito Democratico.
Marco Minniti si candida alla segreteria del Pd in un’intervista a Repubblica; meno di tre settimane dopo, Minniti ritira la sua candidatura in un’altra intervista a Repubblica. Ad oggi, dunque, i candidati alla segreteria rimangono Nicola Zingaretti, Maurizio Martina, Francesco Boccia, Dario Corallo, Maria Saladino e Cesare Damiano. A Repubblica rimangono ancora sei giorni per bruciare un altro candidato.
Nelle prime primarie post-Renzi è successo praticamente di tutto, a cominciare dal numero di candidati – sette, contando anche Minniti – al modo con cui lo stesso Renzi discute e dibatte di congresso – “non mi occupo del congresso” – finendo con i timori di chi resta candidato su cosa possa fare Renzi domani (se ne va? fonda un suo movimento? si scinde per correre da solo alle europee?). Insomma, questo congresso verrà ricordato per il gossip e non per le idee che i candidati, e il futuro segretario, metteranno in campo per far ripartire il Pd.
Matteo Renzi, come è capitato sovente su argomenti interni al Pd, dice che non si occupa del congresso. Diceva la stessa cosa per le elezioni locali durante la sua segreteria (forse perché le ha perse tutte?). L’analisi dell’ex segretario restituisce l’idea che i successi erano tutti suoi, le sconfitte erano sempre causa del partito. Il “fuoco amico” ha impedito al Pd di superare quota 18 per cento alle politiche di marzo, ma lo stesso “fuoco amico” rende inutile, agli occhi renziani, il congresso del 2019 perché non è presente Renzi. Viene da pensare che l’interesse di Renzi nel Pd venga concepito solo se cavalca l’onda leaderistica dell’ex segretario.
D’altra parte, essere leader, oggi, è sinonimo di ambizione personale: leader carismatici che ottengono consenso lo sono stati personaggi come Obama, Merkel, Berlusconi (nel ’94) e lo stesso Renzi (nel 2014); lo sono tutt’oggi Trump, Salvini e Di Maio. Marco Minniti, così torno all’argomento principale, non è un leader ma un ottimo funzionario di partito senza quella specifica ambizione personale che sgorga nel leaderismo autentico. Minniti ha avuto una vita da mediano, parafrasando Ligabue: nella sua lunga carriera politica, ha avuto molti incarichi importanti ma sempre nominato dal leader di turno.
Il cannibale, in politica, è colui che spazza via l’avversario con l’oratoria. Obama, Berlusconi e Renzi sono stati dei cannibali. Minniti non lo sarà mai. E non lo sono – e forse mai lo saranno – nessuno dei candidati alla segreteria Dem. L’unico stallone che il Pd ha in casa è Dario Franceschini, ma a lui interessa il potere, non la poltrona da segretario.
Al Pd oggi manca il cannibale. Senza un cannibale il Pd è destinato all’estinzione o al suicidio assistito, che forse è il termine più corretto.
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