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Nonostante l’esuberanza dello starlattico messo in sottofondo per darmi una mano, l’idea di passare la settimana ad occuparmi delle contorsioni del Pd mi getta in uno stato di depressione senza fine. Aver superato – grazie alla supercazzola – la dialettica D’Alema-Veltroni solo per ritrovarmi in quella Renzi-Bersani, o magari Barca-Renzi; a dover compulsare le interviste di Franceschini e di Lettabibì e bibò della gioventù democristiana degli anni ottanta; a dover sentire Vendola (scisso nell’89 ed aver raccattato quelli che si sono scissi nel 2007) che adesso auspica una fusione col Pd – benché D’Alema se vincesse Renzi volesse fare una scissione e un partito di sinistra proprio con lui – è un film che non vuole venire fuori, dove i registi seduti in panchina non hanno nemmeno l’idea di raccontare oniricamente questa trentennale transizione attraverso il nulla, impegnati senza accorgersene nel girotondo felliniano. No, non mi va proprio, anche perché stavolta manca la musica di Nino Rota.