La tregua tra Israele e Hezbollah è un breve respiro in una regione abituata a vivere in apnea. Frutto di pressioni, compromessi e un’inedita combinazione tra la diplomazia di Biden e la retorica incisiva di Trump, questo cessate il fuoco è il primo passo verso un equilibrio instabile, ma necessario, per guardare oltre il conflitto e verso Gaza.

I sessanta giorni di tregua tra Israele e Hezbollah, annunciati dopo mesi di violenti scontri, è tanto un sollievo quanto un azzardo. Un cessate il fuoco in una delle aree più instabili del pianeta non si raggiunge mai senza sacrifici o compromessi, e la pace, in queste circostanze, assomiglia più a una pausa carica di tensione che a una reale soluzione. Ma è comunque un passo. E, in questo caso, un passo che nasce da una strana sinergia: da un lato la diplomazia tradizionale dell’amministrazione Biden, dall’altro la pressione decisa e teatrale del presidente eletto Donald Trump. Due strategie opposte, che si sono incastrate con sorprendente efficacia.

Per capire come ci siamo arrivati bisogna tornare al 7 ottobre 2023, quando Hamas lanciò il gravissimo attacco contro Israele scatenando una risposta che si trasformò in una guerra su due fronti. Mentre il sud del Libano bruciava sotto i razzi di Israele su Hezbollah, il governo Netanyahu si perdeva in una spirale di ritorsioni e vittime civili nella Striscia di Gaza. Quel doppio fronte, concepito a Teheran come una strategia per strangolare Israele, oggi appare incrinato. Hezbollah è stato indebolito – non solo dalla morte dei suoi leader storici Sinwar e Nasrallah, ma anche dalla pressione economica e militare subita in oltre un anno di conflitto. L’Iran, da parte sua, ha accettato di separare la battaglia libanese da quella di Gaza. Non è una concessione altruista: è una mossa per guadagnare tempo e risorse, riorganizzarsi e, forse, contrattare da una posizione più forte nel prossimo futuro.

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L’inedita coppia Biden-Trump

Ed è qui che si vede l’impatto di Trump. Il suo messaggio a Teheran – chiaro, diretto, minaccioso – ha risvegliato le memorie delle sanzioni economiche, l’isolamento internazionale e le minacce militari non troppo velate. Gli ayatollah hanno letto tra le righe il messaggio di Washington: continuare questa guerra costerà caro. Il risultato è stato una tregua fragile, certo, ma che comunque allenta la morsa su Israele, almeno al confine nord.

Ma c’è anche Biden in questa storia. La sua squadra di negoziatori ha lavorato con metodo e discrezione per costruire il terreno diplomatico necessario. Senza questo lavoro di base, la pressione di Trump sarebbe rimasta una minaccia nel vuoto. È la combinazione di questi due approcci – il pragmatismo di Biden e l’imprevedibilità di Trump – che ha reso possibile questo accordo.

L’obiettivo resta Gaza

Il vero obiettivo, però, è Gaza. È lì che si gioca la partita più delicata. Hamas è sempre più isolata: senza il supporto militare di Hezbollah e con il Qatar che si sta sfilando sotto la pressione americana, l’organizzazione jihadista sembra vicina a un punto di rottura. Trump, con il suo stile inconfondibile, ha messo Doha di fronte a un ultimatum: continuare a sostenere Hamas significherebbe rischiare di perdere la grande base militare americana – e con essa il prestigio e i 500 milioni di dollari annui che porta nelle casse qatariote. Ed infatti il Qatar ha scelto di allentare la presa su Hamas, lasciandola più vulnerabile.

La speranza – ancora lontana dall’essere una certezza – è che questa pressione possa spingere Hamas a liberare i 101 ostaggi ancora detenuti. È su questo che si basa il piano: una tregua vera e propria con Gaza in cambio della liberazione degli ostaggi. Ma è un equilibrio instabile, con troppi fattori imprevedibili: le divisioni interne al governo israeliano, il rischio di provocazioni da parte di frange estremiste e la capacità di Hamas di reinventarsi come ha già fatto in passato.

E poi c’è il Libano, dove il cessate il fuoco resta un’idea più che una realtà concreta. Il passaggio delle consegne tra le forze israeliane e quelle libanesi è ancora da definire, il ritorno dei civili nelle loro case è tutto da pianificare e il contingente ONU, presente dal 2006, non ha mai avuto la forza di far rispettare la risoluzione 1701 che obbligherebbe Hezbollah a ritirarsi oltre il fiume Litani. Ogni passo è un rischio, e ogni rischio potrebbe riportare tutto al punto di partenza.

L’Unione Europea come tramite

In questo scenario, l’Europa ha un’occasione rara per dimostrarsi protagonista. Missioni come UNIFIL in Libano avranno bisogno di rinforzi e finanziamenti, e l’Unione Europea, con i consigli di Italia e Francia, può fare la differenza, in particolar modo dopo il mandato d’arresto per Netanyahu del Tribunale penale internazionale che avrebbe potuto far fallire il cessate il fuoco in Libano. Allo stesso modo, la ricostruzione di Gaza – se mai si arriverà a quel punto – richiederà un impegno internazionale che non può essere lasciato solo agli Stati Uniti o ai Paesi arabi.

Questa tregua, in definitiva, è come una fiamma accesa vicino una tanica di benzina: fragile, pericolosa, ma capace di accendere una luce in quel buio che dura da troppo tempo. La domanda è se il mondo sarà in grado di proteggere quella fiamma, alimentandola con diplomazia, responsabilità e, soprattutto, visione a lungo termine.