Trump rimane uno dei più intriganti paradossi della politica americana. Ha affrontato tre campagne presidenziali ed è stato oggetto di infinite analisi e dibattiti. Eppure, non abbiamo ancora capito perché piaccia tanto, cosa rappresenti il suo consenso, e se c'è un metodo dietro la sua follia. Sono pochi i leader di cui si parla tanto, ancora meno quelli che riescono a sfuggire alla comprensione come riesce a fare Trump.
Il caso di Donald Trump rimane uno dei più intriganti e, in molti sensi, paradossali della politica americana del nuovo millennio. È sulla scena da quasi un decennio, ha affrontato tre campagne presidenziali, ed è stato oggetto di infinite analisi e dibattiti. Eppure, eccoci ancora qui a interrogarci sul perché piaccia così tanto, su cosa rappresenti davvero il suo consenso, e se ci sia un metodo dietro la sua apparente follia. Ci sono pochi leader di cui si parla tanto, ancora meno che sembrano sfuggire così costantemente alla comprensione.
La domanda che ci facciamo è sempre quella: Trump è incredibilmente fortunato o straordinariamente astuto? Quando sbraita in un confronto televisivo, quando balla durante i comizi, o quando pubblica insulti sui social alle tre del mattino, c’è dietro una strategia o è semplicemente Trump che fa Trump? Istinto o calcolo? Quanto ci è, e quanto ci fa?
Questa ambiguità è diventata parte del suo fascino e della sua forza. Ha raggiunto quello stato in cui, qualsiasi cosa accada, qualcuno troverà il modo di dire che in realtà è un vantaggio per lui. Le incriminazioni? Lo rafforzano: si fa passare per perseguitato, raccoglie milioni di dollari in donazioni, motiva i suoi sostenitori. Un’assoluzione? Beh, ovviamente lo rafforza. Persino una condanna sarebbe un’occasione per lui di accrescere il mito del martire. Insomma, se ne parli o lo ignori, sembra sempre che il gioco lo vinca lui.
L’estremismo delle nomine
Non è così semplice, ovviamente. Ma questa descrizione si è riproposta anche con le prime mosse della sua nuova amministrazione, in particolare con le nomine. Trump si è mosso a una velocità impressionante nel riempire le caselle del governo, ma le scelte sollevano parecchie perplessità. Parliamo di nomine come quella di un no-vax al Dipartimento della Salute, di una filorussa all’Intelligence, di un ex militare noto per posizioni misogine alla Difesa, e di Matt Gaetz al ministero della Giustizia, un uomo con un curriculum che definire imbarazzante è poco.
Gaetz, in particolare, è stato uno shock. Se dovessimo descriverlo, pensate al troll più provocatorio che avete mai incontrato online e moltiplicatelo per dieci. A questo aggiungete accuse di abusi sessuali su minori, tratta di persone, uso di droghe e altri scandali assortiti, e avrete un’idea del personaggio. Certo, Trump ha molti fedelissimi con idee simili alle sue che avrebbero potuto ricoprire quel ruolo senza attirare tanto disprezzo. Quindi perché scegliere Gaetz? È un piano ben preciso o ancora una volta Trump che fa Trump?
L’idea che si era fatta largo era che Gaetz fosse una sorta di esca, che Trump lo avesse nominato sapendo che il Senato lo avrebbe bocciato, ma con l’intenzione di sacrificare un pezzo per salvare gli altri. Il ragionamento era che i senatori Repubblicani, rifiutando Gaetz, avrebbero dimostrato indipendenza e, nel frattempo, approvato senza troppa resistenza nomine ugualmente controverse ma meno chiassose. Un piano da giocatore di scacchi esperto, insomma.
Ma poi sono arrivate altre nomine, una più improbabile dell’altra: un negazionista climatico all’Energia, un’ex dirigente del wrestling all’Istruzione, l’anchorman con accuse sessuali e così via. A quel punto l’ipotesi del “sacrificio strategico” ha iniziato a scricchiolare. Troppi nomi controversi per pensare che fosse tutto calcolato.
Un’altra possibilità, più incline al personaggio, è che Trump stesse mandando un messaggio di forza. Costringere il Senato a ratificare una figura così problematica come Gaetz avrebbe mostrato chi comanda davvero. Sarebbe stato un segnale non solo al Congresso ma al paese: “io decido, e voi obbedite”. Ma anche questa spiegazione ha perso forza quando nemmeno Trump è riuscito a convincere i senatori Repubblicani più scettici. Ha provato, ha telefonato, ma alla fine ha dovuto ritirare la nomina.
E così la vicenda Gaetz si è conclusa con un passo indietro: il primo grande smacco politico della sua nuova amministrazione. Se c’era un piano, è fallito. E se non c’era, abbiamo semplicemente assistito al consueto modus operandi di Trump che fa Trump.
È Trump che fa Trump
E questo, forse, è il vero punto. Trump non governa con la coerenza o la prevedibilità di un normale politico. Il caos è una parte strutturale della sua leadership. Le nomine lanciate e ritirate, i licenziamenti via social, le fughe di notizie, i cambi di rotta improvvisi: tutto questo continuerà a essere la cifra del suo governo. Spesso, dietro le sue mosse non c’è un piano. O, se c’è, non è sempre vincente o comprensibile. Ma in un panorama così imprevedibile, è difficile dire quando questo lo penalizzerà davvero.
Pam Bondi è il nuovo nome che Donald Trump ha messo sul tavolo per sostituire Matt Gaetz come procuratrice generale. Avvocata di 59 anni, Bondi è un volto ben noto in Florida e, in certi ambienti, anche a livello nazionale. È stata procuratrice generale dello stato, ma soprattutto è ricordata per due episodi che legano il suo percorso a quello di Trump: nel 2013 decise di non portare avanti un’indagine sulla Trump University, l’ormai celebre schema truffaldino venduto come un programma educativo, e in seguito fece parte del team legale che ha difeso Trump in alcuni dei suoi procedimenti giudiziari. Un curriculum che sembra fatto apposta per garantirle una nomina senza troppi ostacoli al Senato.
Ma Bondi non è l’unica figura controversa che Trump ha deciso di portare nella sua nuova amministrazione. Tra le altre nomine spicca quella di Mehmet Oz, l’ex medico televisivo e candidato repubblicano al Senato in Pennsylvania, che perse malamente contro John Fetterman due anni fa. Oz sarà responsabile dei programmi Medicare e Medicaid, due pilastri del sistema sanitario pubblico americano che garantiscono assistenza rispettivamente agli anziani e alle persone più povere. Una scelta curiosa, se non altro perché la sua carriera mediatica e il suo passato politico non offrono molte garanzie in termini di competenza sanitaria o amministrativa.
Linda McMahon, già amministratrice della WWE – il gigante del wrestling –, è stata nominata ministra dell’Istruzione, un dicastero che Trump ha apertamente promesso di smantellare. In altre parole, McMahon potrebbe guidare un’istituzione con l’obiettivo di farla sparire. E poi c’è Scott Turner, lo speaker motivazionale ed ex giocatore di football incaricato dell’agenzia per la Casa, un’altra scelta che si inserisce nella logica di premiare fedeltà e notorietà piuttosto che esperienza specifica.
Il filo conduttore
Quello che emerge da queste nomine non è solo una linea di continuità rispetto alle scelte passate di Trump, ma un modello che sembra persino accentuato. Il filo conduttore che lega Bondi a Oz, McMahon a Pete Hegseth è la loro totale dipendenza politica da Trump. Non hanno un passato radicato nel Partito Repubblicano, non vantano reti di alleanze solide né una carriera istituzionale da preservare. Per molti di loro, la fedeltà al presidente è l’unico motivo per cui siedono al tavolo delle nomine.
Questa dinamica rende queste figure isolabili, plasmabili e, soprattutto, totalmente vincolate alla figura di Trump. Non c’è un piano B per loro: la loro carriera politica è nata e rischia di morire con lui. Questo, agli occhi di Trump, è un vantaggio non da poco, perché elimina alla radice il rischio di tradimenti o di prese di distanza che hanno segnato la sua prima amministrazione.
Non mancano però casi in cui Trump punta su figure con un interesse personale, quasi corporativo, nei settori di cui saranno responsabili. Il Tesoro sarà gestito dal proprietario di un importante fondo d’investimento, il Commercio finirà nelle mani di un altro esponente della finanza, e il Dipartimento dell’Energia sarà guidato da un imprenditore del gas naturale. Qui la logica sembra chiara: mettere nei posti di comando persone che non solo condividono la sua visione, ma che hanno un tornaconto diretto nel portarla avanti.
In questo mosaico di nomine si intravede il disegno di un’amministrazione ancora più radicale e imprevedibile della prima. Se da un lato la fedeltà assoluta è il collante principale, dall’altro l’impreparazione – o la scarsa esperienza istituzionale – sembra quasi un requisito, una garanzia che nessuno dei nuovi nomi possa opporsi alle direttive del presidente. Trump sta costruendo un governo fatto su misura per portare avanti la sua agenda senza ostacoli interni, dove l’assenza di legami con il sistema politico tradizionale è più una virtù che un limite.
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