Il calcio moderno è diventato una maratona senza fine. Tra campionati nazionali, coppe europee, competizioni internazionali e le ormai sempre più frequenti partite delle nazionali, i giocatori si trovano immersi in un calendario fitto che lascia pochissimo spazio al recupero. Il risultato sono una serie infinita di infortuni che colpiscono anche i grandi campioni.
Prendiamo ad esempio un top player europeo che gioca in una squadra di vertice: partecipa al campionato nazionale, alla Champions League, a qualche coppa nazionale, e poi ci sono le pause per le Nazionali, che ormai significano partite ogni mese o quasi, e a fine stagione il temutissimo Mondiale per club. In pratica, un giocatore di alto livello potrebbe arrivare a disputare fino a 60/70 partite all’anno. E tra una gara e l’altra, dove trova spazio il riposo?
Infortuni sempre più frequenti
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: muscoli che cedono, tendini che si spezzano, lesioni che costringono a lunghe assenze. Le statistiche parlano chiaro: negli ultimi anni, gli infortuni muscolari sono aumentati in modo esponenziale. Anche i più forti – quelli che una volta si pensavano indistruttibili – sono sempre più spesso fuori dai giochi.
Il problema però è serio quando si guarda ai giocatori. Un esempio recente è Rodri, il centrocampista del Manchester City e della Spagna, che a 28 anni si è rotto il crociato, proprio dopo aver detto che si gioca troppo. Guardiola, il suo allenatore, non vuole rinunciare a lui: tornerà in campo, forse, in primavera. Lo stesso è successo l’anno scorso a Gavi, giovanissimo talento del Barcellona; ter Stegen, il monumentale portiere tedesco del Barca, si è rotto il tendine del ginocchio che gli potrebbe far saltare l’intera stagione, e Carvajal del Real Madrid sabato ha riportato la tripla frattura del ginocchio destro. Nemmeno nella nostra Serie A siamo messi meglio: Perr Schuurs del Torino è fuori da un anno per il crociato, la Juventus dovrà fare a meno di Bremer per sette mesi, e sabato si è rotto il crociato pure di Zapata del Torino, che forse salterà l’intera stagione.
Giusto un numero: in questo momento, in Serie A ci sono ben 73 giocatori fuori per infortunio, 24 di questi per la rottura del crociato. Non stiamo parlando del numero totale di infortuni dall’inizio della stagione, ma di chi è ancora fermo ai box in attesa di guarigione. Settantatré.
La compressione del calendario è diventata quasi assurda. Dopo un’estate in cui i calciatori partecipano a Europei, Mondiali, Copa América o altre competizioni internazionali, tornano subito alla preparazione per la nuova stagione. In pratica, la pausa estiva è ridotta all’osso. Giocatori che si allenano per una nuova stagione senza nemmeno avere avuto il tempo di recuperare da quella appena conclusa.
I campionati nazionali e il peso delle competizioni europee
La Premier League, laLiga, la Serie A – ogni campionato nazionale ha i suoi ritmi e le sue esigenze. A questo si aggiunge l’enorme pressione per le squadre di primeggiare in Europa: la nuova Champions League, con la sua fase a girone unico e le successive eliminazioni dirette, richiede prestazioni costanti di altissimo livello. E non dimentichiamo l’Europa League e la Conference League, che con le loro trasferte spesso estenuanti mettono a dura prova le squadre.
Per le società, la partecipazione a questi tornei non è una scelta ma una necessità. Oltre al prestigio, ci sono i premi milionari che entrano nelle casse. Ma se questo ritmo forsennato può essere sostenibile a livello finanziario, sul piano fisico presenta un conto salatissimo.
Le nazionali: tra gloria e sacrificio
Un altro fattore che complica il quadro sono le partite delle Nazionali. Oltre agli impegni nei vari campionati, ogni anno si disputano tornei pressoché inutili come la Nations League, poi ci sono le qualificazioni a Europei e Mondiali, e infine le amichevoli che servono al gruppo a ridosso degli eventi importanti. La FIFA e la UEFA cercano continuamente di espandere questi tornei, alimentando un circolo vizioso in cui i calciatori sono sempre più sfruttati.
Per i giocatori, queste partite rappresentano il massimo dell’onore. Rappresentare il proprio Paese è qualcosa di unico. Ma il rischio di infortunio è altissimo, e quando succede, a pagarne le conseguenze sono anche i club, che spesso vedono i loro giocatori tornare a casa con problemi fisici.
Il problema della gestione dei carichi di lavoro
Uno dei temi più discussi è la gestione dei carichi di lavoro. Allenatori e staff medici si trovano di fronte a un dilemma: come mantenere i giocatori al top della forma senza stressare troppo i loro corpi? Si parla sempre più di turn-over, ma per le squadre di vertice è difficile rinunciare ai propri campioni nelle partite chiave.
Alcuni club hanno sviluppato approcci scientifici, usando tecnologia avanzata per monitorare i dati fisici dei giocatori: chilometri percorsi, accelerazioni, impatti muscolari. Questo permette di calibrare l’intensità degli allenamenti e prevenire gli infortuni. Tuttavia, anche con tutti questi accorgimenti, il calendario serrato e la pressione agonistica non lasciano mai abbastanza spazio per un recupero ottimale.
Soluzioni in vista?
Si parla sempre più spesso di riforme del calendario. Allenatori di spicco come Pep Guardiola o Jürgen Klopp hanno più volte denunciato il sovraffollamento delle partite, chiedendo una riduzione del numero di competizioni o, quanto meno, un miglior bilanciamento tra gare e pause. Ma dietro al calendario ci sono enormi interessi economici e politici, con le federazioni calcistiche che faticano a trovare un compromesso.
Alcune proposte includono l’allungamento delle finestre di recupero tra le partite, oppure la riduzione del numero di squadre partecipanti a certi tornei, così da limitare il numero di gare da disputare. Tuttavia, queste ipotesi non sono facili da attuare e scontrano con gli interessi economici e televisivi che dominano il calcio moderno.
E in Italia? La Serie A a 18 squadre è la soluzione ideale, come ha fatto la Francia e come ha sempre avuto la Germania. Però Italia, Inghilterra e Spagna non sembrano voler rinunciare ai diritti TV e ai risultati europei. Almeno in Inghilterra hanno eliminato i replay della FA Cup dando un po’ di respiro alle squadre.
La soluzione, quindi?
Giocare meno è una necessità. Oppure alcune squadre potrebbero saltare la prima fase della Champions, ma poi la qualità del gioco ne risentirebbe. C’è sempre chi tira fuori il paragone con l’NBA, dove i giocatori nella regular season non danno il massimo, ma è un confronto che non regge: il basket ha ritmi e sforzi diversi. O magari basterebbe scioperare, ma uno sciopero di quello serio.
Ah, e a chi dice che uno come Haaland non sciopererebbe mai dico che ha ragione: lui, fortunello, ai Mondiali e agli Europei si è riposato.
Il punto è che nel calcio moderno le rose sono enormi, con 30 giocatori, e gli allenatori possono fare tutto il turnover che vogliono. I cinque cambi, introdotti col Covid, sono rimasti. Ma forse è proprio la rigidità delle gerarchie in campo e la pressione che viene dallo staff tecnico che spinge i giocatori oltre il limite. È più facile dare la colpa ai calendari piuttosto che ammettere che i club, con le loro richieste esagerate, abbiano un ruolo negli infortuni.
L’evoluzione degli dei
C’è poi una questione tattica: il calcio si è evoluto enormemente negli ultimi vent’anni. Oggi ogni giocatore, dal portiere all’attaccante, deve saper giocare la palla e fare pressing su ogni centimetro di campo. Questa rivoluzione ha reso il lavoro dei calciatori molto più duro, sia fisicamente che mentalmente, rispetto a trent’anni fa. Il pressing è uno dei maggiori responsabili degli infortuni, come dimostra uno studio che collega gli infortuni al ginocchio proprio all’intensità del pressing.
Ma la vera domanda è un’altra: si gioca troppo per tutti o solo per una cerchia ristretta di giocatori? I campioni che giocano 70 partite all’anno sono più a rischio: chi arriva in fondo a tutte le competizioni, è titolare fisso in campionato e in nazionale. Sono pochi eletti, ipersollecitati. E gli altri? Magari loro non si lamenterebbero affatto di dover giocare di più.
Giocare di meno è un’idea, ma si potrebbe anche pressare meno. Magari cambiando le regole, come vietare il pressing nei primi venti metri di campo. Sembra folle? Certo che lo è! Però pensate a quando il portiere poteva prendere la palla con le mani su un retropassaggio: le regole cambiano con il gioco, come nel baseball, dove un lanciatore una volta faceva tutta la partita mentre oggi viene sostituito dopo quattro o cinque inning, riducendo gli infortuni.
Finisco. Il calcio è sempre stato un gioco di resistenza e sacrificio, ma il calendario attuale sembra spingere i calciatori oltre i loro limiti. Senza una vera riforma, il rischio è che gli infortuni continuino a moltiplicarsi, danneggiando la qualità dello spettacolo e, soprattutto, la salute dei giocatori.
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