Nell’era dei big data, il software di Palantir è in grado di incrociare le informazioni per anticipare i comportamenti delle persone prima che agiscano.

Immaginare un mondo in cui ogni traccia digitale diventa accessibile a governi e aziende non è più esercizio di fantasia, e diventato la realtà quotidiana in cui viviamo. Dati sanitari, geolocalizzazioni, acquisti online, ricerche sul web, persino i rapporti sociali: tutto confluisce in archivi che promettono efficienza ma rischiano di trasformarsi in strumenti di sorveglianza capillare. La promessa di sicurezza si scontra con il prezzo pagato in termini di privacy, diritti civili e perfino libertà politica. In questo contesto, il confine tra tutela dei cittadini e controllo degli individui diventa fragile, facilmente aggirabile.

Al centro di questo processo ci sono le piattaforme di analisi dei dati, progettate per integrare informazioni frammentarie in un unico quadro leggibile. Sono strumenti molto potenti, utili tanto alla gestione di una catena di montaggio quanto alla pianificazione di operazioni militari. E proprio qui nasce l’ambiguità: ciò che serve a rendere più efficiente un ospedale o un’azienda può essere impiegato, senza troppe mediazioni, per tracciare spostamenti, segnalare sospetti, costruire profili etnici o politici.

Tra le società che meglio rappresentano questa frontiera spicca Palantir Technologies, nata in California vent’anni fa con il sostegno della CIA e diventata in pochi mesi una delle aziende più discusse e controverse al mondo. Persino il nome scelto, ispirato ai Palantíri di Tolkien, rimanda all’idea di vedere lontano e di scrutare ciò che resta nascosto. È il simbolo di un modello di potere fondato non più soltanto sulla forza militare o sul capitale finanziario, ma sulla capacità di trasformare i dati in armi politiche, economiche e strategiche.

In pochi anni Palantir è passata dall’essere una società poco conosciuta a diventare “lo sviluppatore di software di riferimento del governo americano”, come l’ha definita Wired. La sua capitalizzazione ha superato i 380 miliardi di dollari, quintuplicando nell’ultimo anno, e Donald Trump in persona ne ha confermato la portata dei rapporti con la Casa Bianca lo scorso luglio durante un incontro pubblico dedicato all’intelligenza artificiale.

Il successo si deve soprattutto a due piattaforme. Foundry, pensata per le aziende, integra archivi e dati industriali, ottimizzando produzione e magazzini. Gotham, invece, è la creatura più discussa: software destinato a governi, polizie ed eserciti, in grado di incrociare informazioni provenienti da reparti diversi e generare analisi predittive. Entrambi hanno una caratteristica decisiva: possono essere usati anche da chi non possiede competenze informatiche, integrandosi facilmente con sistemi già esistenti. È questa immediatezza che li rende pervasivi e, al tempo stesso, inquietanti.

Quando a marzo Trump ha firmato un ordine esecutivo che obbliga le agenzie federali a condividere i dati tra loro, al centro della decisione c’erano proprio le tecnologie di Palantir. Ufficialmente, la misura doveva aumentare l’efficienza della macchina statale. Ma diversi parlamentari democratici hanno visto l’altra faccia della questione: il rischio che strumenti pensati per migliorare i processi burocratici diventino armi di persecuzione contro immigrati e oppositori politici.

I timori non sono infondati. Ad aprile Wired ha rivelato che l’ICE, l’agenzia federale che controlla frontiere e immigrazione, ha pagato 30 milioni di dollari a Palantir per un software chiamato ImmigrationOS, capace di monitorare la presenza di immigrati irregolari e selezionare chi espellere. Uno strumento che trasforma la gestione dei dati in una macchina di sorveglianza di massa, con implicazioni legali enormi.

Le accuse più pesanti riguardano Gotham, utilizzato in varie forme anche da alcune polizie europee. Secondo un’inchiesta di Liberty Investigates, il software viene impiegato in reti di sorveglianza in tempo reale e spesso classifica le persone come “sospette” sulla base di profili etnici o religiosi. Sono i cosiddetti algoritmi predittivi: non si limitano a descrivere il presente, ma cercano di anticipare il futuro, stabilendo chi potrebbe diventare criminale prima ancora che compia un reato. Una tecnologia che sembra uscita da un film di fantascienza, ma che oggi è già in uso, senza garanzie di trasparenza o possibilità di difesa per chi viene segnalato.

Intanto i contratti si moltiplicano. Palantir ha stretto accordi con il Pentagono, con il Dipartimento della Sicurezza nazionale e con agenzie civili come la Social Security Administration e l’Internal Revenue Service, che useranno Foundry per accelerare e ottimizzare i loro processi. All’inizio di agosto, la società ha vinto un appalto decennale da dieci miliardi di dollari con l’esercito statunitense.

L’ascesa ha radici precise. Fin dai primi anni Palantir ha goduto di un rapporto privilegiato con la sicurezza nazionale: tra i suoi investitori iniziali c’era In-Q-Tel, il braccio finanziario della CIA. Uno dei fondatori, Peter Thiel, è un personaggio chiave dell’ecosistema tecnologico americano e politico conservatore (ne ho parlato qui). Fu tra i primi sostenitori pubblici di Trump nel 2016, e mantiene legami stretti con Elon Musk. Non a caso, è stato proprio il Dipartimento per l’Efficienza del Governo (DOGE), voluto da Musk, a spianare la strada a Palantir. Creato con l’obiettivo dichiarato di ridurre gli sprechi, il dipartimento ha rescisso contratti miliardari con colossi della consulenza, tra cui Accenture, Booz Allen e Deloitte, dirottando le risorse sulla nuova piattaforma di Thiel.

Palantir, però, non si è limitata a sostituire i vecchi attori. Ha scelto di inglobarli, imponendo una condizione: chi vuole collaborare con il governo deve usare i suoi software. Accenture, per esempio, ha lanciato un progetto per formare mille dipendenti all’uso di Foundry, e Deloitte ha firmato un’alleanza analoga. Un modello che ha permesso a Palantir di ampliare la propria influenza senza rinunciare a collaborazioni vantaggiose.

La rete di rapporti personali ha fatto il resto. Molti funzionari del DOGE provengono direttamente da Palantir, mentre Musk e Thiel si conoscono dai tempi di PayPal, fondata insieme alla fine degli anni Novanta. In questo intreccio di amicizie e affari, l’azienda è riuscita a diventare non solo una società di software, ma un attore politico ed economico con un peso difficilmente eguagliabile.

L’espansione di Palantir non si limita agli Stati Uniti. L’azienda ha sempre dichiarato di seguire una linea “pro-Occidente”, rivendicata apertamente dal suo CEO Alex Karp. In un’intervista al New York Times, Karp ha definito lo stile di vita occidentale «superiore» lasciando intendere che le tecnologie della società non sarebbero mai state messe al servizio di regimi ostili o percepiti come corrotti. Palantir, infatti, evita accordi con Cina e Russia, preferendo governi ritenuti “più allineati e affidabili”. Peter Thiel lo ha spiegato in termini brutali: «con le nazioni corrotte, non si viene pagati».

Questa visione ideologica si traduce in una rete di collaborazioni che va dal Regno Unito alla Germania, passando per Israele, India, Francia e Svizzera (TheirStack). È proprio il legame con Israele a scatenare le polemiche più forti. Diverse ricostruzioni giornalistiche hanno sostenuto che Palantir abbia contribuito allo sviluppo di Gospel e Lavender, sistemi informatici usati dall’esercito israeliano per identificare obiettivi da colpire nella Striscia di Gaza. L’azienda ha smentito, affermando che quei programmi fossero già in uso prima della loro collaborazione. Ma le accuse restano pesanti: secondo Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, ci sono «ragionevoli motivi per ritenere che Palantir abbia fornito strumenti predittivi e infrastrutture di difesa fondamentali» per l’implementazione rapida e su larga scala di software militari all’IDF.

Anche in Europa la penetrazione dei software Palantir solleva dubbi. In Germania, Gotham è stato adottato dalle forze di polizia di Baviera, Assia e Renania Settentrionale-Vestfalia. Nel Regno Unito, diverse contee hanno sperimentato lo stesso sistema, scatenando proteste per i rischi legati all’uso dei dati personali. Ma è soprattutto il contratto da 330 milioni di sterline firmato con il governo britannico a far discutere. L’accordo prevede la gestione dei dati del National Health Service e la creazione di un nuovo archivio digitale. Secondo il Guardian, Palantir avrebbe avuto accesso non solo a cartelle cliniche, ma anche a dati biomedici, geolocalizzazioni, schede SIM, contenuti social e immagini raccolte dai droni. Non sorprende che l’associazione nazionale dei medici britannici abbia denunciato la commistione tra industria della sorveglianza militare e gestione sanitaria.

Non è la prima volta che Palantir si scontra con le autorità locali. Già nel 2017 BuzzFeed News raccontava il braccio di ferro con la polizia di New York. Il contratto, firmato nel 2012, si concluse quando il dipartimento decise di affidarsi a un nuovo software sviluppato con IBM. La reazione dell’azienda fu durissima: non solo tentò di ostacolare la transizione, ma si rifiutò di consegnare al NYPD i dati elaborati sulla base delle informazioni ricevute. Una vicenda che mostrò in modo lampante la forza contrattuale di Palantir e la difficoltà, per le istituzioni pubbliche, di liberarsi dalla sua infrastruttura tecnologica una volta adottata.

Nonostante i contratti miliardari e la crescita impressionante in borsa — +1.500% dal 2020, con un raddoppio solo dall’inizio del 2025 — restano dubbi sulla solidità del modello. Il Financial Times ha messo in guardia contro una valutazione gonfiata dall’entusiasmo sull’intelligenza artificiale, definendola «pura fantasia» rispetto alla crescita “da sogno” dell’azienda. In altre parole, Palantir si presenta come un colosso destinato a dominare il futuro, ma il rischio è che i mercati stiano comprando più l’idea di un mito che la sostanza di un business sostenibile.

Quel che resta certo è la questione centrale: nel mondo contemporaneo, il potere non si misura soltanto in capitali o armamenti, ma nella capacità di gestire informazioni. Palantir rappresenta la punta più visibile di questo processo, mostrando fino a che punto l’analisi dei dati possa ridefinire gli equilibri tra sicurezza e diritti, tra efficienza e sorveglianza, tra governance democratica e controllo autoritario.

Se Palantir mostra quanto l’analisi dei dati possa ridisegnare il rapporto tra sicurezza e diritti, un altro fenomeno sta emergendo con la stessa forza, ma da una direzione diversa: gli influencer politici. Qui non si parla di algoritmi che setacciano archivi segreti, ma di profili social capaci di parlare direttamente a milioni di persone, modificando percezioni, opinioni e perfino risultati elettorali.

La trasformazione è sotto gli occhi di tutti. Dimenticate i video di viaggi o le ricette da condividere online: oggi i content creator sono diventati parte integrante della comunicazione politica. Una ricerca pubblicata da The Conversation ha mostrato come i loro messaggi abbiano ormai cancellato i confini tra intrattenimento, informazione e propaganda. La loro forza non sta solo nel numero dei follower, ma nella fiducia personale che costruiscono con chi li segue. Non a caso, Wired ha definito il 2024 come “l’anno della presa di potere degli influencer in politica”.

Negli Stati Uniti l’esempio più evidente è Donald Trump, che non ha mai nascosto di dare grande peso ai creatori di contenuti della galassia Maga. Una delle figure più influenti, Laura Loomer, è riuscita addirittura a orientare decisioni interne alla Casa Bianca: secondo un’inchiesta del Guardian, il presidente avrebbe licenziato consiglieri di alto profilo ritenuti poco graditi alla sua cerchia digitale. In Europa, invece, c’è chi dagli schermi è passato direttamente alle urne. Il caso più clamoroso è quello dello youtuber cipriota Fidias Panayiotou, eletto al Parlamento europeo senza alcuna esperienza politica, trainato soprattutto dal voto dei giovani. Nel giro di poche settimane è però finito sotto accusa per le sue posizioni considerate vicine alla propaganda russa.

La forza persuasiva dei social non è sfuggita ai governi. Israele, nel pieno della guerra a Gaza, ha ingaggiato influencer per diffondere contenuti che mostrano bar aperti e colazioni tranquille nei pressi della Striscia, con l’obiettivo di negare la carestia denunciata dall’ONU. Le Monde ha raccontato come questi creatori di contenuti vengano portati fisicamente ai confini di Gaza per trasmettere immagini rassicuranti, mentre il Manifesto ha documentato la diffusione di video che minimizzano la fame come mera invenzione propagandistica.

La Cina non è rimasta a guardare. Per rafforzare la propria immagine internazionale ha organizzato veri e propri viaggi-premio per influencer occidentali, invitati a raccontare un Paese dinamico, moderno e accogliente, offrendo una narrazione alternativa a quella dei media tradizionali. La Russia, invece, si è mossa in modo ancora più aggressivo: secondo Politico, ha orchestrato campagne di disinformazione online per influenzare le elezioni in Germania, inondando i social di notizie false tramite bot legati al Cremlino. E la BBC ha documentato operazioni simili in Romania, con la stessa finalità: alterare il voto sfruttando il potere virale dei contenuti digitali.