C'è un pattern nella politica estera di Donald Trump. Eppure basta guardare l'Ucraina per capire che c'è un filo conduttore: qualunque cosa faccia Trump, Vladimir Putin non paga mai davvero il conto.

La condotta estera dell’Amministrazione Trump presenta un profilo di imprevedibilità che Max Boot del Washington Post definisce “una sfida a ogni spiegazione”, qualcosa difficilmente razionalizzabile. Il tracciato recente è eloquente: sostegno “sovranista” all’Argentina, pressioni dirette sulla Nigeria, sospensione dei fondi USAID che costituiscono l’ossatura del soft power americano, minaccia di ripresa dei test nucleari, annuncio ricorrente di un’azione militare contro il Venezuela, giro di vite e retromarce sui dazi. I messaggi pubblicati su Truth Social amplificano l’incertezza: dichiarazioni spesso disallineate ai fatti operativi mettono in difficoltà sia gli analisti sia i partner stranieri.

Dietro l’oscillazione, tuttavia, emerge un asse costante: evitare danni reali all’apparato di potere russo. Le frizioni con il Cremlino restano soprattutto scenografiche, mentre le scelte sostanziali tendono a non intaccare gli interessi strategici di Mosca. Questa linea ha ricadute dirette sulla sicurezza europea, in particolare sul fronte ucraino.

Ma da dove nasce questa incapacità di Trump a rompere con Putin? Tra il 2017 e il 2019 il procuratore speciale Robert Mueller condusse un’inchiesta federale sulle interferenze russe nelle elezioni del 2016 e sui possibili legami tra la campagna di Trump e Mosca. L’indagine ha prodotto condanne per diversi collaboratori di Trump, ma non ha portato ad accuse dirette contro il presidente per collusione con la Russia.

Però ci sono dei fatti documentati e il retroterra aiuta a leggere il presente. A fine anni Novanta, nell’ufficio della Trump Tower si affaccia Felix Sater. Il vero nome è Felix Mikhailovich Sheferovsky, con legami familiari nella criminalità russa e una proposta a nome del gruppo Bayrock: operazioni immobiliari a SoHo, in Florida, in Arizona, e soldi, tanti soldi cash per l’uso del marchio “Trump”. Il socio Tevfik Arif proviene dall’apparato sovietico.

La collaborazione parte immediatamente. Nello stesso periodo proliferano contatti con ambienti ex sovietici: allora denaro e affari di Mosca circolano liberamente anche in Occidente, mentre a Washington si coltiva perfino l’idea di una Russia “associata” alla NATO. Il lavoro giornalistico di Craig Unger su American Kompromat (qui la recensione del Post) non confluisce in esiti giudiziari né in condanne politiche, neppure dopo le indagini del procuratore Mueller.

«Farò entrare Putin in questo programma e faremo eleggere Donald… il nostro ragazzo può diventare presidente e possiamo organizzarlo», racconterà anni dopo Sater, che nel frattempo è diventato informatore federale dopo una carriera nel crimine.

Sullo scenario ucraino il copione si ripete con varianti minime. Il Presidente dichiara “delusione” verso Putin, promette una soluzione lampo del conflitto, agita la minaccia, poi avvia un tavolo negoziale sul quale il Cremlino si presenta disponibile per depotenziarlo in seguito. L’esito è ricorrente: erosione del sostegno a Kyiv, sequenze di promesse e revoche (missili annunciati e poi fermati, aiuti bloccati), incontri bilaterali dall’impatto nullo. Nel frattempo, Pokrovsk è collassata, il Paese entra in un inverno di bombardamenti e penuria, aggravati da un tasso di corruzione che colpisce perfino il capitale politico del Presidente Zelensky.

Autunno: dopo il naufragio del vertice di Budapest annunciato da Trump e ignorato da Mosca, la Casa Bianca vara “sanzioni terrificanti” su due grandi gruppi energetici russi. La misura sarebbe incisiva solo con sanzioni secondarie verso i Paesi terzi che tengono in piedi il flusso commerciale con la Russia. Invece, a breve distanza, arriva alla West Wing Viktor Orbán; l’Ungheria ottiene un’esenzione sulle restrizioni relative all’acquisto di petrolio russo. Il messaggio attraversa l’Unione Europea: l’architettura sanzionatoria ha valvole di sfogo. Nell’Europa orientale, dove la dipendenza energetica resta significativa e le operazioni ibride sono costanti, la linea di deterrenza si assottiglia. Colpiti in particolare gli Stati più esposti a pressioni interne di matrice sovranista.

In tale contesto Sergej Lavrov calibra il pendolo: toni ultimativi alternati a disponibilità di incontro con il Segretario di Stato Marco Rubio. Il Cremlino incassa tempo e margine. Non è un episodio isolato, ma la prosecuzione di una dinamica iniziata il giorno della vittoria di Trump nel 2016, la Duma russa accolse con una standing ovation la vittoria di Trump come se avessero vinto loro, inizia un loop che non si è mai interrotto. Da allora, la relazione politica procede come il “giorno della marmotta”: minacce, aperture, rinvii; mai un atto che costi davvero a Mosca.

Otto anni dopo, mentre l’Ucraina muore e l’Europa trema, Trump potrebbe spezzare lo schema. Basterebbe un gesto chiaro contro Mosca. Ma ogni volta che sembra arrivato il momento, qualcosa lo trattiene. E Putin continua a vincere senza combattere.