Il riconoscimento della Palestina è un atto politico necessario per riaffermare un principio e per interrompere la delegittimazione del popolo palestinese.
L’Italia dovrà riconoscere lo Stato di Palestina. Non perché sia un gesto di rottura, né perché sia in anticipo sui tempi. Al contrario: perché non c’è più nulla da anticipare. L’inerzia diplomatica dell’Occidente, alimentata per anni da una prudenza che ha finito per legittimare l’occupazione, ha lasciato spazio a una realtà che si è imposta da sola. E oggi, in quel vuoto di azione e responsabilità, si accumulano decisioni che provano – almeno simbolicamente – a rimettere in piedi le regole che sono state calpestate.
Riconoscere la Palestina non è più una scelta tattica, ma una mossa necessaria. Un gesto che si colloca fuori dalla diplomazia delle opportunità e dentro la storia concreta di un popolo, quella che si misura con carestie indotte, bombardamenti continui, esodi forzati. Quella in cui l’occupazione militare si trasforma, senza alcuna ambiguità, in annessione di fatto.
In questo scenario, l’Italia resta inchiodata alla retorica dell’equilibrio. Una posizione che, fino a pochi mesi fa, poteva ancora vantare qualche alibi: la fragilità dell’Anp, la presenza di Hamas, l’instabilità della regione. Oggi no. Oggi quei fattori sono rimasti, ma ciò che è cambiato – radicalmente – è il livello di violenza normalizzata, l’esplicita volontà di espansione territoriale di una parte crescente del governo israeliano, e l’uso strumentale della liberazione degli ostaggi per continuare un’operazione bellica che ha ormai altri obiettivi.
In questo contesto, restare fermi non è neutralità. È complicità.
Eppure si continua a ragionare come se riconoscere la Palestina significasse “premiare Hamas”. Una logica pigra, che ignora due anni di escalation, decine di migliaia di vittime civili, e un’evidenza che nessuna narrazione riesce più a coprire: il 7 ottobre è stato il detonatore, ma la direzione era già scritta. E la risposta israeliana, invece di isolare Hamas, ha finito per marginalizzare ogni interlocutore moderato palestinese, svuotando il campo da qualunque possibile equilibrio.
È in questo vuoto che si inseriscono le decisioni arrivate in queste settimane. Regno Unito e Canada hanno formalizzato il riconoscimento dello Stato di Palestina, seguiti dall’Australia, dal Portogallo, e con la Francia pronta a ratificare la propria decisione all’Assemblea Generale dell’Onu. Non si tratta solo di atti simbolici – come li ha definiti con fastidio l’amministrazione Trump – ma di posizionamenti chiari all’interno di un’alleanza occidentale che sta mostrando crepe sempre più profonde.
Perché se è vero che il riconoscimento formale della Palestina come Stato sovrano richiede il passaggio attraverso il Consiglio di Sicurezza, dove gli Stati Uniti hanno già posto il veto, è altrettanto vero che 145 Paesi membri delle Nazioni Unite l’hanno già fatto. Tra i G20, tredici Stati – dalla Cina al Brasile, dal Sudafrica al Regno Unito – hanno detto sì. Mancano gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del Sud, la Germania e l’Italia. Non esattamente un club invidiabile.
Che cos’è, oggi, riconoscere uno Stato?
Nel diritto internazionale non si tratta solo di un atto politico: è il riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale, della capacità di intrattenere relazioni internazionali. È, in sostanza, dire che un’entità ha il diritto di esistere e di farsi rappresentare. È il primo passo per inviare ambasciate, firmare accordi, partecipare con voce piena ai consessi multilaterali. È – ed è questo il punto – ciò che si concede a chi viene trattato come soggetto, e non come appendice storica da tollerare o reprimere.
A chi sostiene che la Palestina non rispetta i criteri della statualità, occorre rispondere con i dati. La popolazione permanente c’è. I confini, seppur contesi, esistono. Un governo – per quanto fragile e delegittimato – è formalmente riconosciuto. E la capacità di gestire relazioni diplomatiche è un fatto, non un auspicio: la Palestina intrattiene rapporti con dozzine di governi e partecipa da anni a forum internazionali come Stato osservatore.
Il problema, casomai, è politico: chi guiderà uno Stato palestinese riconosciuto? Abu Mazen ha 89 anni, le elezioni sono ferme dal 2006, e la divisione tra Hamas e Anp resta profonda. Ma questa domanda ha senso solo se posta con la stessa onestà anche all’altra parte. Perché da Israele – dove la destra religiosa, i coloni e i partiti suprematisti fanno ormai parte stabile del governo – non si pretende alcuna coerenza né legittimità. La disfunzione, a quanto pare, è un problema solo se è palestinese.
Nel frattempo, i riconoscimenti continuano. Spagna, Irlanda, Slovenia, Norvegia, Armenia. E altri sono attesi nelle prossime settimane. Il Regno Unito ha parlato di “atto necessario per ravvivare la speranza di pace”. La Norvegia ha detto con chiarezza: “non possiamo più attendere che il processo di pace produca un riconoscimento, dobbiamo riconoscere per riattivare il processo”. La Spagna, che da sempre rifiuta qualunque rivendicazione separatista interna – e quindi ha motivi evidenti per evitare precedenti – ha deciso di farlo comunque. Un segnale che non può essere ignorato.
E l’Italia?
L’Italia resta nel limbo, come spesso accade quando la direzione è chiara ma manca il coraggio di prenderla. Il ministro Tajani ha spiegato che l’Italia è favorevole al riconoscimento, ma solo se Israele accetta e se Hamas è escluso dal futuro governo palestinese. Tradotto: solo se ciò che Israele rifiuta oggi per principio diventa improvvisamente possibile domani. Un esercizio di diplomazia condizionata che non convince più nessuno.
E intanto, mentre il dibattito all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si apre – con Abu Mazen costretto a inviare una dichiarazione preregistrata per via del veto americano ai visti –, l’Italia si limita a osservare. Mantiene un ufficio di rappresentanza a Gerusalemme, intrattiene rapporti con l’Anp, sostiene a parole la soluzione dei due Stati. Ma non si muove. E così, mentre i morti aumentano, mentre l’occupazione si consolida, mentre l’idea stessa di una pace giusta viene diluita fino a scomparire, l’Italia continua a comportarsi come se ci fosse ancora tempo.
Ma il tempo non c’è più.
Il riconoscimento della Palestina non è una medaglia da appuntarsi per distinguersi, né una resa alla propaganda radicale. È un atto politico necessario, oggi, per riaffermare un principio e per interrompere, almeno simbolicamente, l’infinita delegittimazione del popolo palestinese. È un tentativo – l’ultimo possibile – di non doverci un giorno chiedere perché, quando era il momento di dire qualcosa, abbiamo scelto ancora una volta di stare zitti.
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