Trump non è mai stato un liberista: la sua idea di economia è autoritaria e concentrata nelle mani di chi comanda, che decide tutto in solitaria.
Per abitudine o per pigrizia, continuiamo a leggere il panorama politico americano attraverso categorie che non reggono più. Destra contro sinistra, repubblicani per il libero mercato, democratici fautori di tasse e intervento pubblico. Una mappa mentale rassicurante, che però ha smesso da tempo di corrispondere alla realtà.
Nell’immaginario collettivo, il Partito Democratico resta il partito “ostile al mercato”, favorevole alla regolamentazione, all’aumento delle imposte e al rafforzamento del potere federale. I Repubblicani, per contro, rimangono i difensori della libera impresa, del taglio delle tasse e della deregulation. È una visione binaria, schematica, ma ancora utile a spiegare perché molti, anche oggi, vedano in Donald Trump un campione delle politiche pro-business. Il miliardario che taglia le tasse, combatte le burocrazie, e minaccia lo spauracchio del “socialismo” ogni volta che serve a cementare le fedeltà.
Ma proprio questa narrazione, che ha sostenuto gran parte dell’appoggio che Trump continua a ricevere dall’establishment repubblicano e dai grandi donatori, merita di essere smontata pezzo per pezzo. Perché non solo è vecchia: è profondamente sbagliata.
Il punto è che Trump non è – e non è mai stato – un vero liberista. Anzi, la sua visione dell’economia e del libero mercato è autoritaria, accentratrice, fondata sull’idea che sia l’uomo solo al comando a dover decidere quando, come e con chi si fa affari. E l’aspetto più sorprendente è che proprio alcuni dei suoi sostenitori più ferventi vedono in questo autoritarismo un punto di forza, non una debolezza. Pensano che la sua figura “forte” serva a forzare le politiche di mercato che altrimenti non passerebbero in un Congresso diviso. Vogliono un ariete che sfondi le porte che la democrazia parlamentare tiene chiuse. Ma qui sta la grande illusione: danno potere assoluto a un uomo perché faccia ciò che loro desiderano, dimenticando che, una volta ottenuto quel potere, farà esattamente ciò che vuole lui.
L’autoritarismo ha una logica interna, e non è compatibile con un vero libero mercato. Gli uomini forti temono sempre i centri di potere alternativi: i media indipendenti, la finanza non allineata, le imprese che non rispondono al potere politico. Qualunque fonte autonoma di ricchezza diventa una potenziale minaccia. E in questo senso, Trump non fa eccezione. Ha già dimostrato, con sorprendente successo, di voler fare di sé stesso l’asse attorno al quale ruota l’economia americana.
Il punto d’ingresso più evidente di questa ambizione è il commercio. È lì che Trump ha trovato lo spazio per esercitare un controllo diretto, saltando il Congresso e facendo leva su poteri presidenziali che si sono allargati, in modo silenzioso ma costante, per quasi un secolo.
In teoria, la Costituzione è chiara: l’articolo I, sezione 8 affida al Congresso il potere di imporre tasse, dazi e accise, e di regolare il commercio estero. I Padri Fondatori intendevano far passare qualsiasi decisione commerciale attraverso il processo legislativo, perché i dazi – in fondo – sono tasse. E la tassazione, in democrazia, dovrebbe restare sotto il controllo diretto dei rappresentanti del popolo.
In pratica, però, il Congresso ha cominciato a cedere questo potere già negli anni ’30. Dopo il disastro dello Smoot-Hawley Tariff Act del 1930 – che innescò una guerra di dazi a catena e aggravò la Grande Depressione – i parlamentari americani capirono di dover togliere a sé stessi la possibilità di fare danni. A partire dal 1934, hanno iniziato a delegare al presidente una discrezionalità sempre più ampia nel negoziare le tariffe, con la promessa che sarebbe servita per favorire l’apertura dei mercati, non la loro chiusura.
Il compromesso era ovvio: il presidente poteva muoversi con più agilità, ma sempre nell’ottica di ridurre gli ostacoli al commercio. Dopo la Seconda guerra mondiale, questa visione ha sostenuto l’intero ordine economico internazionale: il libero scambio come leva per la stabilità e la pace. Eppure, per motivi di equilibrio interno, il Congresso ha mantenuto alcune scappatoie. Una di queste è la possibilità di aumentare i dazi per “emergenze” o “ragioni di sicurezza nazionale”. Era pensata come una clausola estrema, da usare con cautela. Ma Trump ne ha fatto il perno della sua politica economica.
A differenza dei suoi predecessori, ha usato questi strumenti non in modo marginale, ma sistemico. Li ha branditi come armi, non come strumenti di negoziato. Ha colpito i partner commerciali, ha minacciato gli alleati, ha imposto dazi unilaterali non per ottenere compromessi, ma per affermare un principio: che il commercio estero deve piegarsi alla sua volontà.
E qui si torna al punto di partenza. Trump non rappresenta il libero mercato. Rappresenta una forma di dirigismo personalistico, dove il successo economico non dipende più da regole condivise, ma dall’umore del leader. In questo modello, il “pro-business” diventa sinonimo di “pro-Trump”, e chi non si allinea viene escluso, penalizzato, delegittimato. La stessa retorica della libertà economica, ripetuta ossessivamente, finisce per coprire un progetto autoritario che nulla ha a che vedere con la concorrenza o con l’efficienza.
Nel linguaggio di oggi, si chiamerebbe “nazionalismo economico”. Ma a ben guardare, è un vecchio concetto mascherato da novità. È il potere concentrato nelle mani di uno solo, travestito da lotta contro l’establishment. È l’illusione che si possa comandare l’economia come si comanda un’azienda, dimenticando che i cittadini non sono dipendenti, e la democrazia non è una filiale.
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